-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

L'EUROPA DOPO DUE RIVOLUZIONI - ( 1849 - 1871 )


204. 13) - CORRENTI NAZIONALI IN AUSTRIA E IN ALTRI STATI.
L'INGHILTERRA


I due più importanti personaggi di questo periodo inglese: Lord Palmeston e la Regina Vittoria

Sembra radicarsi nella natura dell'uomo l'impulso a distruggere con ardore ciò che esso ha costruito con grande fatica e sacrificio.
Quanto si può continuamente osservare nei giochi dei ragazzi si ripete nella storia degli Stati.
Era appena soddisfatto l'intenso desiderio di un mezzo secolo, era appena stato creato lo Stato nazionale che una gran parte di coloro che avevano contribuito a costituirlo incominciava non soltanto a esprimere rumorosamente il proprio disprezzo per le "casuali barriere", ma a sovvertire in pratica l'ordinamento statale esistente.

L'interesse per le controversie politiche e religiose oggi non é più per il sentimento pubblico di una efficacia prevalente; in loro vece stanno i contrasti sociali; le pretese economiche portano alle più violente lotte di classe e di mestiere, e i loro argomenti oscillano incostantemente qua e là fra un crasso egoismo e cervellotiche considerazioni altruistiche.
Ma questo mutamento fu, come si é già detto, preparato solo teoricamente nel periodo che va dal 1848 al 1871. Allora erano tuttavia ancora in prima linea i desideri e le aspirazioni nazionali.

I rapporti nazionali nello Stato imperiale austriaco erano di natura complicatissima; quindi dalle pretese delle varie nazionalità dovevano risultare problemi oltre modo ardui. Nella regione della Boemia, racchiusa da tre lati dalla Sassonia, la Baviera e la Slesia, e solo a mezzodì confinante con l'Austria superiore e con quella inferiore, due quinti della popolazione sono tedeschi, tre quinti invece appartengono al popolo ceco, il più - dicono - sveglio e facile a istruirsi di tutte le stirpe slave.
Mentre nell'opposizione degli stati, che dopo la rivoluzione del luglio anche in Boemia si volse contro il sistema metternichiano, il contrasto nazionale appena faceva capolino, esso, risvegliato dalla scoperta di autentiche e falsificate canzoni eroiche e di altre reliquie letterarie ed artistiche del periodo splendido del regno ceco, divenne acuto e importante a causa dell'entusiasmo tedesco nazionale del 1848.

Mentre i Boemi tedeschi salutavano entusiasti il primo parlamento tedesco, la popolazione ceca scorgeva nell'accentramento del nazionalismo tedesco una minaccia alla propria condizione nazionale. Praga allora dava tuttavia l'impressione di una città tedesca, che appena si distingueva da Vienna, pure questa fortemente mischiata di elementi stranieri.
Quando nell'estate del 1848 vi fu convocato un congresso slavo, avvennero dei disordini; i quali, é vero, furono agevolmente repressi, ma il contrasto nazionale proseguì e aumentò sempre più per via della debolezza del Governo imperiale.
Ben presto l'agitazione non si contentò più della eguaglianza giuridica della nazionalità ceca, come si era chiesto da principio, ma aspirò a render ceco completamente il paese, e a trasformare la Boemia in uno Stato autonomo, congiunto con vincoli poco saldi al resto della monarchia absburghese.
Nelle diete i Cechi presto guadagnarono un predominio schiacciante; nella vita costituzionale dello Stato imperiale gli autonomisti boemi furono i più veementi avversari dell'accentramento costituzionale, promosso energicamente e alla fine attuato soprattutto dal ministro Schmerling.

Il trionfo delle tendenze federaliste, sotto il ministero Belcredi, fu in sostanza l'opera delle frazioni slave, alle quali, oltre i Cechi, appartenevano gli Annachi nella Moravia, gli Slovacchi nel territorio di Tatra, finalmente gli Illiri nel mezzogiorno, che si componevano in parti quasi eguali di Serbi, Sloveni e Croati, nel complesso circa un quinto della popolazione dell'Impero austriaco.

In tutte queste stirpi si svegliava il pensiero nazionale, sebbene ora si limitasse a una parte di territorio e si manifestasse soltanto con l'astio e con la gelosia verso i limitrofi comprovinciali, ora si elevasse fino all'idea del panslavismo, cioè l'omogeneità e il diritto all'egemonia di tutti i rami della razza slava.
Un giudizio imparziale deve riconoscere che questo movimento nazionale non solo indusse a pretese egoistiche, ma anche portò con se una elevazione della nazionalità, un energico progresso nel campo spirituale ed economico.

In Russia i contrasti etnici nei territori occupati da popoli stranieri non avevano ancora assunto il carattere ostile, che si sviluppò negli ultimi decenni del secolo XIX.
Nelle province baltiche l'egemonia era ancora incontrastata nelle mani dei Tedeschi, gli antenati dei quali vi erano immigrati fino dal secolo XIII. Tuttavia c'era già un movimento nazionale degli indigeni; nella bassa regione baltica gli Estoni e i Lituani guardavano di malocchio i Tedeschi, come, i Finni gli Svedesi, i quali nella Finlandia pretendevano il diritto di essere l'elemento incivilitore. Tutti questi elementi nazionali si trovavano però d'accordo contro lo spirito russo, il cui dominio era tollerato a malincuore.

Nel 1855 al rigido assolutista Nicola, che sempre e dovunque, segretamente e apertamente aveva appoggiato la reazione, era succeduto Alessandro II più popolare. Ebbe immensa importanza per l'evoluzione interna dello smisurato Impero che il nuovo Sovrano decretasse l'abolizione della servitù della gleba e cercasse di sviluppare e proteggere l'autonomia dei comuni, sebbene mancasse sempre una sana politica agraria e quindi una salda base di un salutare rinvigorimento economico.
Il contadino era sì libero, ma non possedeva una proprietà libera: pertanto rimaneva un operaio tributario delle classi dominanti.
La guerra di Crimea inflisse alla monarchia degli Zar una spaventosa lezione. Tutte le magagne accresciute da un'oppressione senza scrupoli della libertà e dell'indipendenza del popolo erano venute apertamente alla luce.

La società si svegliava, le idee liberali pigliavano radice, ma si faceva di gran lunga più efficace un selvaggio radicalismo, che scorgeva la salute del paese nella distruzione di tutto l'ordinamento esistente.
Alessandro medesimo era, per quanto é possibile a uno Zar, amico del liberalismo moderato, sebbene la sua buona volontà s'infrangesse dinanzi a forze opponenti più salde. Nella burocrazia non era più possibile eliminare l'egoismo e la corruzione; nei ceti inferiori della popolazione (tanta) la mancanza di educazione impacciava: le classi dominanti (poche), non conoscevano che la forza: il popolo non conosceva che la sottomissione cagnesca, o la sedizione distruttrice.

Alla testa della Gran Bretagna stava fino dal 1837 una donna, la quale, senza possedere splendide doti spirituali, con la saggezza nella scelta dei suoi statisti e dei condottieri degli eserciti e con la cauta moderazione della sua condotta ha meritato di essere paragonata con la sua grande predecessora Elisabetta, e ha meritato che si parlasse di una età vittoriana.
Essa ebbe un eccellente consigliere nel principe Alberto di Sassonia Coburgo-Gotha, con il quale, seguendo borghesemente la sua inclinazione, si era sposata nel 1840.
I contemporanei chiamarono il principe reggente «il primo gentiluomo d'Europa»; certo, egli era del tutto estraneo alla stirpe tedesca e agl'interessi tedeschi - quest'accusa del Treitschke é fondata.

Per capire perché tutti i cuori battessero per la giovane regina, bisogna che ricordiamo che la sua ascesa al Governo significò la fine di un complesso di condizioni, le quali non corrispondevano né alla considerazione della Corona, né all'utile del paese.
Del suo predecessore, il semplice Guglielmo IV, fu detto che egli avrebbe restituito alla monarchia, divenuta impopolare e indegna sotto il suo fratello Giorgio IV, la popolarità, non però la dignità. L'una cosa e l'altra riuscì felicemente alla sua subentrante. Senza in qualche modo offendere le forme costituzionali, ella seppe preservare ed accrescere l'influsso della Corona nella politica (fino al 1901, anno della sua morte).

La nobile e semplice corte inglese non si poteva, come quella francese, considerare quale centro del regno, e perfino i desideri personali della sovrana doverono in questioni importantissime cedere alla volontà del partito dominante: ma come infinitamente più sane erano in Inghilterra le condizioni della classe educata e in genere sociali di quello che non fossero in Francia!

All'energia, sempre giovanilmente fresca, della nazione anglo-sassone e alla direzione audace e prudente al tempo stesso era dovuto uno sviluppo senza esempio dello Stato.

La storia mondiale non può forse mostrare un secondo esempio che si sia formato nel corso di mezzo secolo un impero universale di così gigantesca estensione e potenza come quello britannico nella seconda metà del XIX secolo.
Quando la regina Vittoria salì sul trono, l'India era congiunta con vincoli molto deboli alla metropoli; le colonie australiane erano dagli stessi Inglesi considerate come una zavorra senza valore; in Egitto e in Cina l'Inghilterra non aveva ancora posto saldamente il piede; in Africa possedeva solo la colonia del Capo, abitata da Boeri: mentre il passaggio del Canadà agli Stati Uniti sembrava solo una questione di brevissimo tempo.
In tali condizioni di fatto si riteneva che possedimenti coloniali estesi sembrassero anche a notevoli politici più un sacrificio che un beneficio desiderabile.
Con l'Australia e con l'India avverrà, assicuravano il celebre libero scambista Riccardo Cobden e i suoi seguaci, come con le colonie americane: la madre patria le tirerà su con gravi spese soltanto perché esse, quando poi siano divenute forti e potenti, riescano a conseguire l'indipendenza.

Il Nuovozelandese del Macaulay, il quale, seduto su i rottami del ponte londinese, contempla melanconicamente l'immenso campo dei ruderi di Londra, é il simbolo di quella concezione della politica coloniale britannica. Invece la Regina Vittoria e il suo primo ministro lord Palmerston, tipo di statista inglese, fornito - finché non era in gioco l'arroganza nazionale - di discernimento libero, cavalleresco, si erano instancabilmente adoperati ad estendere il dominio inglese in tutte le parti della terra e dove già esisteva a portarlo a una reale efficienza.

La rivolta nel Canadà fu repressa: ancor più spregiudicatamente e crudelmente fu spezzata la resistenza dei rajà nell'India. Durante la pericolosa ribellione dei sipays nel 1857 Sir Giovanni Lawrence con eroica energia mantenne il Pengiab salvando così alla signoria inglese i possedimenti indiani. Anche dinanzi alla frontiera, rigidamente chiusa, dell'Impero cinese l'avidità del commercio inglese non volle arrestarsi più a lungo; la Cina dopo un'infelice guerra dovette cedere i suoi più importanti porti ai vincitori e permettere al mercante inglese d'importare l'oppio fatale.
Il regime autonomo delle colonie non fu abolito, ma ebbe tali limitazioni, quali occorrevano a un duraturo consolidamento del vincolo con la madrepatria: e un po' alla volta, favorito dal fortunato sviluppo economico, subentrò alla costrizione mal tollerata un sentimento di omogeneità.

Con legittima soddisfazione il Palmerston poteva vantare che l'Inglese tanto in Toronto, quanto in Hongkong o in Melbourne si sentiva orgoglioso come civis Romanus. Per l'Inghilterra e le colonie "la più grande Bretagna" era una patria comune.
Verso la fine del '60 si delineava già, quantunque tuttavia in forme vaghe, l'Impero sull'orizzonte dell'avvenire; il concetto d'un impero universale passava dalle file dei politici nella coscienza generale nazionale. Legami assai lenti congiungono il Regno con le sue parti, ma finché esso rimane l'emporio del commercio mondiale e quindi lo Stato più ricco e potente, non c'è da temere o sperare che le parti si abbiano a separare dalla metropoli.

Mentre tutti i Governi continentali furono inquietati dalla violenta marea della rivoluzione, l'Inghilterra e la Scozia goderono d'una tranquillità quasi indisturbata. Le camere dei Signori e dei Comunii potevano anche, dopo il trionfo del progetto di riforma, non esser considerate come una vera rappresentanza del popolo inglese, ma la costituzione saldamente radicata nella vita politica soddisfaceva il bisogno della popolazione di pigliar parte al Governo.
Il partito conservatore e quello progressista su per giù si bilanciavano, cosicché ora l'uno, ora l'altro aveva il sopravvento nelle elezioni. Poiché il gabinetto costituzionalmente doveva comporsi sempre conforme alla maggioranza vittoriosa, c'erano frequenti mutamenti.

Qui non é il caso di addentrarci a parlare di queste lotte di princìpi e di interessi. Ambedue i partiti disponevano realmente di notevoli statisti. I liberali avevano un magnifico rappresentate in lord Palmerston, che si fece molti nemici con la sua politica estera profondamente energica e con la sua risoluta propaganda libero-scambista, ma acquistò anche dentro e fuori del Regno britannico una immensa popolarità.
Compagno di fede, ma al tempo stesso pericoloso emulo e avversario del Palmerston, era lord Giovanni Russel. Già sotto il Re Giorgio IV, si era segnalato per il suo atteggiamento virile e consapevole in favore dell'eguaglianza giuridica dei cattolici e della trasformazione liberale del diritto elettorale: ma, come dirigente della grande politica, con il suo parteggiare per gli Stati americani del sud, per i Polacchi, per i Danesi, ricevtte qualche grosso scacco, e non riuscì del tutto a conservare alla Gran Bretagna la condizione di potenza predominante, che aveva goduto sotto la guida del Palmerston.

Dalle file dei conservatori uscì fuori Guglielmo Ewart Gladstone; certo le sue massime e il suo atteggiamento non di rado superavano per impeto liberale il più radicale liberalismo. Il suo schietto liberalismo acquistò, soprattutto dalla morte del Palmerston in poi (1865), un'efficacia predominante sulla politica inglese.
Il suo ingegno si palesò nel modo più convincente nella magistrale esecuzione di un piano finanziario di larga concezione. Il suo sguardo di lunga portata, la sua ardente eloquenza, la sua eminente dottrina lo fanno apparire come il primo statista inglese nel decimonono secolo.

Nonostante un così splendido accrescimento di potenza e di prosperità, tuttavia anche questo Stato aveva il suo tallone d'Achille: la questione irlandese. Quantunque l'Inghilterra avesse pagato con la sua prontezza a sacrificarsi, durante la spaventosa carestia nel periodo fra il trenta e il quaranta, una parte del debito, che si era addossato con l'oppressione dell'Irlanda, proseguita da secoli, l'esasperazione della popolazione irlandese contro i suoi tiranni si manteneva; il contrasto nazionale e quello confessionale duravano in tutta la loro rudezza; solo con l'aiuto delle armi si poteva mantenere la dominazione inglese. Le aperte ribellioni erano più facili a domarsi che la resistenza dei feniani, la società segreta diffusa da per tutto, combattente per l'indipendenza dell'Irlanda e al tempo stesso per fini socialistici.

La fame e l'odio indussero molte centinaia di migliaia a emigrare nell'America nordica, cosicché vi si formò in qualche modo una seconda Irlanda. Ma se questo indebolimento della forza del popolo irlandese costituiva un vantaggio per il Governo inglese, la diffusione della lega feniana nell'intera America settentrionale per appoggiare l'emancipazione irlandese significava un nuovo pericolo.
In ogni occasione la passione nazionale scatenata scrosciava su tutta l'isola. Così non poteva non avvenire che l'anno della rivoluzione del 1848 non arrecasse anche una levata di scudi degli Irlandesi; O' Brien, un uomo di legge di tenaci propositi e al tempo stesso una testa calda, era il capo del movimento, sfociato poi nei disordini.
La ribellione fu domata, e O' Brien punito con l'esilio; ma la propaganda rivoluzionaria proseguì immutata. Il conflitto fu minaccioso soprattutto durante la guerra di secessione in America.
Gl'Irlandesi sostennero apertamente gli Stati del nord, perché questi non si erano opposti al fenianismo; il Governo inglese e l'opinione pubblica in Inghilterra favorivano gli Stati del sud. I feniani americani tennero numerosi congressi, dove fu proclamata la repubblica irlandese; né mancarono ribellioni e violenze nella stessa isola verde .

Ma le forze dei rivoluzionari non bastarono ad attuare i loro disegni. Alla fine lo stesso Governo americano dovette, per sfuggire a una guerra con la Gran Bretagna, procedere con ogni severità contro lo sfrenato fenianismo. Ma continuavano senza interruzione chiassosi comizi popolari, tentativi d'assassinio, incendi, violente liberazioni di arrestati.
L'Irlanda era una piaga sempre aperta sul corpo del potente impero inglese. Come in Polonia, nella Irlanda il malumore politico deí possidenti e l'astio sociale dei poveri si accendevano nel mantener vivo il sogno della risurrezione dei regno irlandese.

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205. 14) - I TENTATIVI COLONIALI NEI CONTINENTI EXTRAEUROPEI.

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