-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

163. LA CONVENZIONE - PROCESSO AL RE - 1792-1795

In mezzo agli spaventi destati dalle visite domiciliari e dalle migliaia finiti nelle carceri ebbero luogo le elezioni alla convenzione.
Tornò utile ai patrioti parigini che per essere elettori non fosse più necessaria la residenza nel distretto, una soltanto età di 25 anni e che l'assemblea nazionale avesse lasciato alle sezioni il determinarne i particolari.
Queste abolirono il voto segreto e lo vollero pubblico ed espresso ad alta voce, cosa che equivaleva a far violenza alle coscienze. Nelle elezioni di primo grado furono scelti 900 eletti da circa 200.000 elettori primari.

Ma ad onta di tutte le intimidazioni che erano state fatte prima delle elezioni, non si era sicuri di molti di loro. Perciò Robespierre ottenne che le elezioni definitive avessero luogo nel club dei giacobini e che la lista dei deputati eletti potesse essere mutata dagli elettori primari. Così in Parigi il 5 settembre in mezzo alle pressioni più violente tutto andò seconda i piani. I capi del movimento entrarono nella nuova camera, Robespierre, Danton, Collot.

Minore fu il successo che si ottenne nelle province, dove soltanto il 6 per cento degli elettori osò dare il proprio voto. Tuttavia dei 782 deputati solamente 50 del partito rivoluzionario riuscirono eletti, tra i quali Carnot, Carrier, Fouché, Tallien, Saint Just e altri.
I girondini invece erano in numero di 120, e il resto, vale a dire la maggioranza, non teneva per alcun partito, essa era liberale-repubblicana, senza però un'idea chiara dei suoi fini e delle necessità del momento. A loro stesso dispetto i girondini formavano ora la destra mentre l'estrema sinistra sedeva sui banchi più alti, onde ricevette anche il nome di «partito della montagna».

I girondini rimasero tra loro disuniti; alcuni di loro desideravano mantenere la monarchia, ma i più di rovesciarla. I loro concetti fondamentali corrispondevano quindi a quelli dei giacobini, solo i girondini rifuggivano dalle conseguenze di quei concetti e perciò caddero nell'errore di tenere un contegno esitante.
Sui banchi inferiori, nella «pianura» si vedevano Sieyés, Larévelliére, Boissy. Barras, Barére ed altri. Il loro principale oratore fu Barére, che si acquistò una funesta influenza con un linguaggio abile e fiorito, col quale sapeva velare e nascondere le sue vere intenzioni. All'inizio la pianura inclinava verso i girondini, che perciò potevano essere considerati come i condottieri della Convenzione, mentre per mezzo di Roland dominavano il ministero.
Gli assassini di settembre parvero quindi correre verso la loro rovina, tuttavia questa minoranza, consapevole dei suoi fini era pronta alla lotta e anche alle azioni audaci, doveva vincere la maggioranza oscillante e chiacchierona.

Nella seduta del primo giorno la Convenzione deliberò l'abolizione della monarchia e la proclamazione della repubblica. In questo erano tutti concordi; però nel giorno successivo i moderati assalirono verbalmente i terroristi. Si venne a delle battaglie oratorie piene di passionale emotività e a delle scene tumultuose. La minoranza si vide costretta ad accordare che si anticipasse la data delle nuove elezioni per una metà del consiglio comunale, e con ciò la maggioranza sperava di poter dirigere anche quello.
Nei fatti però il consiglio comunale e il comitato di sicurezza rimasero come prima. Ai girondini riuscì invece mettere termine a quella turbolento campo sotto Parigi, formato da fannulloni pagati per strillare, e di porre Chambon, uno dei propri partigiani, a capo di Parigi in qualità di «maire».

Quanto al resto i giacobini conservarono del tutto il loro predominio. E mentre con occhio sicuro afferravano e riuscivano a conseguire la vera sostanza del potere, i moderati vedevano la loro salvezza nelle parole ardite e negli attacchi parlamentari, diretti principalmente contro Robespierre, che sapeva abilmente respingerli tra i rumori dei suoi partigiani delle tribune pubbliche.
Sempre più appariva che i girondini avevano molte doti di animo, ma nessun vero uomo di stato, nessuna subordinazione ed obbedienza a un capo, così che non riuscivano a formare un solido partito. Trovavano inoltre un appoggio insufficiente anche nella maggior parte del popolo, poiché i cittadini desideravano quiete e moderazione, che non si potevano aspettare dai girondini. Non vi é quindi da meravigliarsi se o perchè troppo inconcludenti o per la loro mancanza di fermezza li condusse fatalmente alla rovina.

Con fiuto sicuro la Montagna riconobbe che la questione del processo del re era il punto debole degli avversari. Se i girondini lo difendevano potevano essere accusati di realismo, se lo sacrificavano si alienavano gli animi di tutti i moderati e degli amici dell'ordine. Non vi era alcun motivo onesto di condannare il re. Ma la Montagna era indifferente alla questione di diritto, voleva solo eccitare la moltitudine e bramava una rottura profonda tra la repubblica e l'Europa monarchica, tra il presente e il passato, poiché il presente in quel momento era tutto a loro profitto.

E la Gironda? Credeva che un processo del re giovasse alla sua propaganda repubblicana mondiale. Desiderava condannare il re, ma non di distruggerlo mettendolo a morte . Così la Gironda fu abbastanza stolta da far rotolare essa stessa la pietra, che doveva schiacciarla. Formò un comitato per esaminare la carte del re, trovate in un armadio segreto delle Tuileries, ed uno dei suoi membri il 3 novembre aprì la discussione alla convenzione con delle affermazioni menzognere.
Ne seguirono appassionate battaglie oratorie. Robespierre inesorabile dichiarò che "il re doveva perire, perché la patria vivesse". Il 3 dicembre fu deliberato dalla convenzione il processo di Luigi XVI, che doveva essere istruito da un comitato speciale.

L'effetto di questa decisione fu grande. I paesi stranieri si rivolsero con orrore verso una repubblica, che si dimostrava assetata di sangue all'interno ed avida di preda e di dominio all'esterno; anche in Francia si espresse l'avversione dei moderati per mezzo di numerosi indirizzi e di pubbliche adunanze. I girondini videro che perdevano terreno e cominciarono a stringere i freni.
Proposero perciò alla Convenzione che il popolo sovrano nelle assemblee primarie avesse il diritto di revocare i suoi attuali rappresentanti se avessero tradito la patria. I capi del partito speravano con questo di potere interessare le assemblee primarie a respingere anche la condanna del re. Ma i giacobini si opposero e come quasi sempre cedette la Gironda. Questa trascurò ancora di acquistarsi il potere in Parigi, cosa che allora sarebbe stata ancora possibile.

L'11 dicembre Luigi XVI comparve alla sbarra della convenzione. Aveva con i suoi familiari passato tempi difficili nel Tempio, era stato trattato con modi brutali e umilianti, senza però perdere la pazienza e la fiducia in Dio. Quando comparve davanti ai suoi antichi sudditi, il suo volto era scarno, la barba ispida, l'abito trascurato. Vi fu un intenso interrogatorio, nel quale con animo tranquillo negò tutti i capi d'accusa che suonavano tradimento alla patria.
A malincuore gli furono accordati come difensori Tronchet e Malesberbes. Ritornato al Tempio seppe dal consiglio della Comune che egli non avrebbe potuto più i suoi cari, perché dichiarati probabili suoi complici. Accolse questa notizia piangendo.

Frattanto nella Convenzione infuriava la contesa tra la Gironda e la Montagna. I moderati chiesero che si vigilasse l'accesso alle tribune pubbliche, distribuendo speciali biglietti. Se questo fosse stato ottenuto il processo probabilmente avrebbe preso un'altra piega. Ma come sempre mancò loro il coraggio di agire; la proposta fu respinta.

Il 26 dicembre ebbe luogo la seconda seduta del processo del re. La plebaglia era eccitata e voleva assassinare il re per la strada durante i trasferimenti. I discorsi della difesa furono coraggiosi ed obiettivi, confutarono le accuse e passarono da parte loro anche ad una controffesa, ma sbagliarono forse nel non dare un sufficiente peso al lato politico e non indicarono abbastanza ai titubanti, come con la condanna del re avrebbe potuto far precipitare negli orrori di una guerra, che avrebbe avuto conseguenze incalcolabili.

Il partito della Montagna rispose alle dimostrazioni della difesa con urla scomposte. L'esito del processo non era una questione di diritto, ma di potere, nella quale aveva parte essenziale l'appello al popolo. I giacobini lo combattevano, i girondini lo domandavano, anzi in questa lotta la persona del re era una cosa secondaria; si trattava già della lotta decisiva tra due avversari mortali e con ciò del destino della rivoluzione e di quello dell'Europa.

Stavano di fronte come campioni avversari Robespierre e Vergniaud. Si destava la compassione nelle province ed anche in Parigi, per cui il consiglio comunale e il comitato di sicurezza fecero fare numerosi arresti e riempirono la guardia nazionale di canaglia. Marat aizzava, e avvenivano tumulti; in breve si produsse artificialmente uno spavento simile che nelle ultime settimane dell'anno 14.000 persone abbandonarono Parigi.

Tuttavia i girondini perseverarono nella loro opposizione. Furono allontanate dalla capitale le truppe di linea, si posero dei cannoni a disposizione delle sezioni e finalmente si riavvicinarono ai moderati 5000 federati che erano l'ultima loro difesa. Pache, il ministro giacobino della guerra, in tre mesi di governo aveva prodotto un disavanzo di cassa di 160 milioni. Né questi erano stati spesi inutilmente. La battaglia era guadagnata per il suo partito, l'assemblea disarmata.

La Convenzione doveva decidere tre questioni: Luigi é colpevole? quale pena deve subire? deve esservi appello al popolo? Se si fosse potuto incominciare dalle ultime domande, il re sarebbe stato salvo, ma non riuscì. Una livida paura dominò durante la votazione. Al quesito sulla colpevolezza si rispose di sì quasi all'unanimità; quello dell'appello al popolo fu respinto con 424 voti contro 284. Si venne allora al terzo, alla pena. Per strappare un voto conforme alla sua intenzione la Montagna aveva fatto ogni preparativo; le tribune, le porte e le vicinanze della sala delle sedute erano occupate da uomini pronti a intervenire.

Un altro mezzo di intimidazione fu il voto per appello nominale, che doveva esser motivato da ogni deputato, fra le grida oltraggiose oppure esultanti delle tribune ad ogni chiamata. Il brutto spettacolo durò 37 ore e quando si contarono i voti si trovò un solo voto di maggioranza a favore della condanna a morte; un certo numero di deputati si erano pronunciati per la morte, ma con aggiornamento. Questo dette animo ai moderati di patrocinare una votazione speciale riguardo all'aggiornamento; ma già la potenza della Gironda era infranta e anche questa proposta cadde per pochi voti.

Malesherbes dette piangendo il terribile annunzio al re. Questi lo ricevette rassegnato, poiché non si aspettava null'altro. Fu straziante il congedo dai suoi cari, un unico abbraccio senza fine. Al mattino del 21 gennaio 1793, il corteo mosse verso la piazza delle esecuzioni.

Quel giorno era domenica ed il tempo gelido e nevoso. Negozi ed officine erano chiusi ed una folla di 20.000 persone si accalca lungo l'ultimo percorso del condannato e in piazza, intorno alla ghigliottina. - Il re viene condotto in carrozza in Piazza della Rivoluzione, circondato da una scorta di 1500 uomini della Guardia Nazionale, comandata dall'ex birraio Santerre.
La carrozza arriva sulla piazza alle ore 10,10 e il re indugia all'interno per circa un paio di minuti, poi scende e giunto ai piedi del patibolo il boia Sanson gli lega le mani dietro la schiena.  Poi sale con passo fermo sul palco dove la ghigliottina lo sta attendendo, ha avuto uno scatto di fastidio solo quando gli aiutanti del boia gli si sono avvicinati per svestirlo. Si toglie da sè la giubba, poi davanti all'immensa folla che lo circonda ammutolita, lui la guarda, e come se desse un comando, con la voce ferma pronuncia una sola frase: "Popolo... muoio innocente...", subito un ordine di Santerre ai tamburi copre la sua voce.
Da questo momento le cose precipitano: sono le 10,20. Sanson il boia con il suo aiutante  lo immobilizzano sulla tavola orizzontale ribaltabile, gli fissano il collo nell'incavo, poi passano gli ultimi lunghissimi istanti prima che si oda il colpo secco della lama che fa rotolare la testa del Re di Francia nella cesta. Sanson il boia ne uscì sconvolto (gli farà dir messa per tutta la vita, e lascerà anche un lascito).
Chi si aspettava di vedere quel re, Luigi Capeto, il re di Francia Luigi XVI, che tanti infamavano come un uomo codardo, mediocre, inetto; chi si aspettava di vederlo vile, fifone, piagnucolante, rimase deluso. L'uomo con una regale fierezza e con inaspettata freddezza si era attenuto a tutto il lugubre cerimoniale che precedeva l'esecuzione. 
P
ochi minuti dopo il carnefice Sanson sollevava dalla cesta con i capelli il capo sanguinoso per offrirlo ai soddisfatti spettatori.

 

 

Le donne con grida disumane come nei mercati, lo salutarono con grida di giubilo. Molti dei presenti, travolte le guardie, corsero ad intingere picche e fazzoletti nel sangue che colava dal patibolo, come "souvenir". La "festa" sembrava finita; pochi immaginavano che era appena cominciata.
Con quel colpo di ghigliottina, che aveva reciso la testa al re, i giacobini avevano reciso e separato sé stessi e la Francia dal resto del mondo. Avevano bruciato dietro a sé i vascelli. Isnard disse che "si era colpito non solo il re, ma il principio monarchico. La giovane repubblica aveva seminato del sangue, e sangue doveva raccogliere".

Il sangue era uscito dalla testa di Luigi, ma ai suoi carnefici il sangue era salito alla testa, causando una scellerata ubriachezza: una "guerra generale" fu subito la parola d'ordine; una guerra all'esterno contro quasi tutte le potenze monarchiche; e una guerra principalmente contro l'Inghilterra.
Eppure nonostante gli avvenimenti, che tutto facevano vacillare e forse appunto a causa di essi, i moderati avevano una buona maggioranza nella convenzione, nel paese ed anche nella capitale. Ma ad essi faceva difetto la risolutezza, la volontà uniforme e collettiva, la netta previsione dei fatti e soprattutto mancava loro energia; tutte qualità che erano invece le caratteristiche dei giacobini.
Il ministero girondino del Roland dovette ritirarsi e fu sostituito da uno moderato; erano questi galantuomini ma ignoti, senza alcun carisma, quindi delle nullità. Per sostenere il ministero Roland, la Convenzione costituì un «comitato di difesa generale», che ben presto cadde anche il comitato al pari del ministero.

Un altro mezzo per mantenersi al potere la Gironda credette di trovarlo in una nuova costituzione, presentandone la proposta il 15 febbraio. Questa si manteneva nello spirito dominante nel 1791. Ma i giacobini si opposero furiosamente e riuscirono a mandar tutto a vuoto. Parve allora alla Gironda di dovere acquistarsi in Danton un alleato, che avesse quello che ad essa mancava, capacità di organizzatore ed energia senza scrupoli.

Fino a quel tempo Danton era appartenuto all'estrema sinistra, poi da ministro aveva riconosciuto che i paroloni e le agitazioni demagogiche avrebbero condotto la repubblica alla sua rovina e che se si voleva sopravvivere bisognava all'interno mantenersi uniti e all'esterno crearsi degli alleati. Con questo lui si avvicinava alle idee della Gironda. E se riusciva l'intesa, tutte le forze latenti dei moderati potevano unirsi insieme in un'opera poderosa.

Ma i girondini temevano quel violento tribuno, e scioccamente lo respinsero. Contro la sua stessa volontà egli si vide un'altra volta spinto dalla parte dei giacobini, fatto che riuscì fatale a lui e fatale alla stessa Gironda; quest'errore a non accettarlo fu il suo suicidio.

In modo essenzialmente diverso si comportava la Montagna. Ottenne di fare il Pache «maire» di Parigi e approfittò della carestia per aizzare ancora la moltitudine contro i proprietari, per sollevare la pretesa al buon mercato dei viveri secondo prezzi regolati dallo Stato, per intimidire la Convenzione con richieste tumultuose del popolo sovrano. Quel partito aveva la sua forza principale nel consiglio comunale, che poteva disporre, oltre che dell'esercito rivoluzionario, di una consorteria rivoluzionaria e dei «pugni duri» pienamente organizzati.
Per mezzo del club dei giacobini estesamente ramificato poteva porre dovunque i suoi al timone e possedeva quindi un potere centrale onnipotente. A questo si mirava.
Marat eccitava al saccheggio a danno degli abbienti, cosa che fu posta in atto il 25 febbraio. La cosa passò così liscia che ormai il consiglio comunale pretendeva il divieto del commercio del denaro, la guerra contro la proprietà e le teste dei girondini. L'eccitazione esercitata artificiosamente fu accresciuta per gli avvenimenti nel nord-est, dove il nemico esterno penetrava vittoriosamente, e nell'occidente, dove i contadini della Vandea si ammutinavano.

Tutte le passioni imperversavano a Parigi. Qui Danton si mise all'opera. L'8 maggio ritornato dall'esercito del Belgio allora per nulla disorganizzato, richiese un forte governo nazionale, esercitato direttamente dalla Convenzione. Respinto di nuovo dalla Gironda s'intese con Robespierre, che preferiva dominare per mezzo dell'assemblea piuttosto che per mezzo dell'instabile consiglio municipale.
In seguito ad una loro azione comune partirono per le province dei rappresentanti della Convenzione per affrettare le leve dei soldati; Robespierre di per sé soltanto cercò di ottenere l'istituzione di un tribunale rivoluzionario con poteri quasi illimitati per mandare i girondini traditori al patibolo.
Ma questo non gli riuscì ancora: il tribunale fu concesso soltanto in una forma limitata. Per chiudere la bocca agli schiamazzatori parigini, la Convenzione proclamò il diritto al lavoro, la divisione delle terre comunali e il principio della imposta progressiva.

In tutta la Francia si diffusero comitati rivoluzionari, che sottomisero tutti al loro arbitrio poliziesco. Il comitato di difesa generale ottenne una maggior competenza e il 25 marzo fu dichiarato istituzione durevole. In esso dominavano la Gironda e Danton.
Nulla era allora così vicina ad una unione finale dei due, tanto più che i giacobini incalzavano con violenza sempre maggiore. La Gironda però credette di poter fare da sé e quando avvenne la defezione del generale Dumouriez, piena di diffidenza, credette che Danton fosse suo complice e di conseguenza traditore. Perciò invece di unirsi con lui, sollevò nella Convenzione delle aperte accuse.

Tuttavia Danton si manteneva riservato; ma quando i girondini rafforzarono i loro attacchi perdette la pazienza. Con voce tonante gettò ad essi il guanto di sfida e trascinò tutti gli altri suoi seguaci con sé. La sinistra non poteca che esultare di averlo di nuovo nelle sue file.
Ben presto se ne vide l'effetto.

Il 6 marzo in seguito alle insistenze di Marat fu costituito un «comitato di salute pubblica» di nove membri. Poteva tenere trattative segrete, vigilare sui ministri e prendere decisioni di immediata esecuzione. Con questo fu creata quell'istituzione, che ha salvato in parte la Francia. Veramente il suo esordire non fu brillante. Quali membri furono eletti Danton con due suoi amici e inoltre dei rappresentanti del centro, fra i quali Barére. Erano tutti avversi al dominio della plebaglia, ma si vedevano spinti dai giacobini nella direzione opposta.

Così la Convenzione prese una serie di provvedimenti, che miravano a questo: la formazione di un esercito di «sans culottes» (senza calzoni corti), l'accrescimento del carico delle imposte sui benestanti, il pareggiamento tra il prezzo dei pane e il salario giornaliero, il corso forzoso degli assegnati, l'aumento della competenza del tribunale rivoluzionario ed altre misure simili.

Nel tempo stesso si pose mano senza riguardi agli affari militari. Nel marzo si era già ordinata una leva di 300.000 uomini. Poiché in questa si incontrarono delle difficoltà, intervenne il comitato di salute pubblica. Il mezzo principale usato allo scopo furono dei deputati come agenti, «représentants en mission», che inviati prima in certi casi, lo furono poi in grandissimo numero, e certo col doppio scopo della leva di nuovi soldati e di piegare le province sotto il dominio dei giacobini.
Questi rappresentanti spiegavano un'attività senza riguardi, nel luogo delle autorità prima esistenti nominavano comitati centrali per i dipartimenti, comitati rivoluzionari per i comuni e cercavano dovunque di promuovere i club locali dei giacobini, perché fossero in certo modo i rappresentanti del potere politico. Alla fine di aprile la Francia in sostanza si trovava nelle mani di questo partito, ad eccezione di alcune grandi città e della Vandea.

Fra i territori, che si arrischiarono ad opporre una resistenza, la Vandea divenne quello di gran lunga più importante. A mezzodì della Loira si stende un paese paludoso, coperto di macchie, difficilmente accessibile, che verso la costa finisce con torbiere e paludi. Là vivevano dei contadini vigorosi, di mente semplice e limitata e di notevole pietà, che poco sapevano di un mondo più vasto, e anche la stessa Parigi era un pianeta del tutto sconosciuto.
Si trovavano in pieno accordo con i proprietari e con gli ecclesiastici del luogo ed erano proprio fin dall'inizio contrari alla rivoluzione che a dire la verrità non sapevano nemmeno cos'era. La classe dirigente in questa regione era profondamente conservatrice e di certo non dava notizie dei fatti che accadevano nella capitale.
Il malcontento aumentò in seguito alla persecuzione di preti, nobili e signori là emigrati e per l'indignazione per l'orrenda fine del pio re, finché scoppiò in aperta rivolta, quando il decreto del 23 febbraio arrivò anche da queste parti e ordinò la leva generale.
In verità non era una vera e propria leva e solo parzialmente obbligatoria, perché l'arruolamento era volontario, anche se poi la legge stabiliva che se non veniva raggiunto il numero del contingente necessario bisognava ricorrere al sorteggio.
Insurrezione cattolica o filo-monarchica? In realtà, anche se originata da un profondo disagio della popolazione il clero refrattario su una popolazione contadina con un atavico credo religioso ha avuto buon gioco. La miccia già accesa dalle vessatorie misure economiche e fiscali introdotte dal regime rivoluzionario, con il reclutamento la miccia arrivò alle polveri ed esplose l'insurrezione.

Il movimento pur sorto dal basso, trovò subito i suoi capi nell'aristocrazia locale, principalmente nello Charette, già luogotenente di marina, nel d'Elbée, antico ufficiale di cavalleria, e in Bonchamps, nobile della regione.

Essi organizzarono abilmente l'insurrezione e si gettarono contro alla marea della rivoluzione con animo eroico e con un fanatismo senza pari. Le guardie nazionali furono vinte e quasi tutte le città del paese occupate.
I primi scontri, iniziati a Cholet, portarono alla sollevazione del 13 marzo, guidata dai capi popolari Jacques Cathelineau, Gaston Bourdic e Jean-Nicolas Stofflet, a cui si unirono alcuni nobili realisti. In giugno i ribelli, costituitisi in "Armata cattolica e reale", si impossessarono delle città di Saumur e di Angers.
In pochi giorni seicento paesi della Vandea insorgono contro le truppe della Repubblica, dando inizio a un tragico periodo di combattimenti fratricidi. I contadini si fanno benedire dai sacerdoti "refrattari" e poi si lanciano con coraggio inaudito, armati spesso in modo primitivo, contro gli "azzurri", i soldati della Rivoluzione.
La controffensiva repubblicana, che sbaragliò i ribelli a Cholet (17 ottobre), poi a Le Mans e a Savenay (dicembre), costò ai vandeani 15.000 morti e fu seguita nel 1794 da feroci ritorsioni sulla popolazione civile, che fomentarono ulteriori manifestazioni di rivolta.

Bagni di sangue e manifestazioni di primitiva ferocia sono i segni che caratterizzano la controrivoluzione vandeana. La valutazione della rivolta segnata di fanatismo di questa area cattolica e contadina, pericoloso focolaio infettivo nel corpo della Francia repubblicana, trova ancora oggi in disaccordo gli storici: secondo alcuni le cause vanno attribuite alla ribellione spontanea contro l’ateismo, le innovazioni religiose, i reclutamenti forzosi di truppa; secondo altri si tratta della realizzazione di un vero e proprio piano controrivoluzionario elaborato e guidato dai nobili.
Tuttavia è abbastanza realistico pensare che la particolare situazione sociale e psicologica della Vandea abbia determinato la fusione delle due cause. L'ipotesi viene confermata dalla fisionomia mutevole dell'insurrezione.

Veramente questi fatti si svolsero soltanto per gradi. Prima si ordinò ai giacobini, ed essi vi erano ben disposti, di approfittare del loro potere per rovesciare definitivamente i loro ultimi emuli, i girondini.
Quelli sollevarono delle accuse, questi le ribatterono con altre più gravi e portarono Marat davanti al tribunale rivoluzionario.

Allora gli amici di Marat, cioè il consiglio della Comune, raccolse il guanto di sfida ed accusò 22 girondini di alto tradimento. Ambedue i colpi caddero a vuoto; i due partiti continuarono a farsi equilibrio. Ma l'indirizzo del governo rimase del tutto giacobino. Nei drastici provvedimenti esso riuscì ad ottenere, nonostante la resistenza della Gironda, il «maximum», ossia un prezzo costante o calmiere per il pane e per gli altri viveri in tutta la Francia. Robespierre dichiarò in quell'occasione essere illecita ogni proprietà che riuscisse di danno alla libertà ed ai possedimenti di un terzo. Anche da altri furono espresse delle pretese di carattere fortemente comunistico.

Tutte le entrate, a partire da 1500 «livres», furono sottoposte ad una tassazione con una aliquota crescente. I comitati rivoluzionari iscrivevano quelli del partito avverso nelle liste di leva o imponevano tasse arbitrarie. Dovunque ci si impegnava a procurare armi ai proletari ma l'impegno maggiore era quello di rendere inermi gli abbienti.

Avvenne allora un contraccolpo. I cittadini, che si erano tenuti lontani dal disordine e dal chiasso della politica, riconobbero che lasciando fare, si erano messi nelle mani del proletariato e ne furono spaventati. Affluirono perciò nelle sezioni ed ottennero presto la maggioranza. Questo loro contegno ardito decise la Gironda a farsi nella Convenzione interprete di quella nuova corrente. Ben presto le bande armate poterono appena mostrarsi dinanzi alle guardie nazionali fattesi ora risolute.
Questo era troppo, i giacobini passarono alla controffen siva. Il consiglio della Comune ordinò l'istituzione di un esercito di «sans culottes» e nominò comandante della guardia nazionale Henriot, un tempo servitore e omicida patriottico.
Nel palazzo arcivescovile un nuovo «comitato insurrezionale» aprì le sue sedute e propose che si redigessero delle liste di sospetti e si espellessero 32 girondini. Fra i due partiti opposti si trovava stretto Danton col comitato di salute pubblica. Cercò di nuovo di allearsi ai girondini, ma anche questa volta inutilmente. Il fine, cui mirava la Gironda, era di liberarsi dal dispotismo di Parigi per mezzo della Convenzione. Domandò quindi lo scioglimento del consiglio della Comune e la convocazione di supplenti della Convenzione non a Parigi, ma come parlamento di riserva a Bourges. Se si riusciva a questo si poteva sperare di rovesciare i giacobini e Danton con loro.

Tuttavia alla proposta ne fu sostituita un'altra, per la quale si doveva formare un «comitato dei Dodici», che indagasse sulla condotta del consiglio della Comune
e su tutte le trame contro l'ordine pubblico. La commissione si radunò il 18 maggio ed era costituita di girondini.
Per provvedere alla propria sicurezza, cercò di guadagnarsi gli animi della guardia nazionale e di limitare le sedute delle sezioni, poi fece arrestare Hebert a causa di un suo articolo incendiario. Hebert era il beniamino della piazza, iniziato in tutti i segreti dei giacobini. Per queste ragioni si dovette metterlo in libertà. Si giunse ad una lotta violenta di animi e di pugni. Per l'invasione di bande tumultuanti di proletari nella Convenzione, il presidente dichiarò revocata la commissione dei Dodici, che però fu ristabilita nel giorno seguente. Era tuttavia così intimorita che permise la liberazione di Hebert
e non osò d'intervenire contro il «comitato insurrezionale».

Questo allora si dichiarò in seduta permanente e insieme agli altri capi spinse le cose ad una soluzione violenta. Cinquecento giacobini proclamarono sciolto il consiglio della Comune e nominarono sé stessi come componenti del nuovo consiglio, per poi accogliere di nuovo nel loro seno qualche vecchio consigliere. Dopo che in questa modo il consiglio della Comune fu ripieno di proletari, Henriot riottenne il comando della guardia nazionale, e tutto fu predisposto per un colpo decisivo.

Il 3 maggio si passò all'azione. Numerosi gruppi di giacobini invasero la Convenzione lanciarono accuse ai girondini e pretesero lo scioglimento della commissione dei Dodici. L'accusa andò a vuoto, ma la commissione fu sciolta. Con questo il comitato di salute pubblica aveva tolto di mezzo i suoi emuli, ma i girondini rimasero in libertà.

Questo nuovo successo non bastò ai giacobini; mantennero sotto le armi i loro partigiani, tolsero alle guardie nazionali i loro poco affidabili capi e fecero venire segretamente a Parigi 12.000 uomini di truppe di linea, raccolti per muovere contro la Vandea.
Al suono delle campane a stormo entrarono questi uomini in Parigi il 2 giugno; le sezioni con sentimenti moderati furono disperse, eseguiti arresti in massa, le Tuileries circondate.
Una deputazione del consiglio della Comune comparve dentro nella Convenzione e chiese l'arresto preventivo di 27 girondini come sospetti di alto tradimento. L'assemblea prese tempo, discusse alcune deliberazioni ma contraddittorie. Insomma si persero in chiacchiere e non conclusero nulla.
Il presidente e altri si decisero ad abbandonare la sala, ma si trovarono le uscite sbarrate.

All'entrata principale stava ubriaco l'Henriot a cavallo dinanzi ad una batteria. Quando il presidente richiese che il passaggio non fosse impedito, l'Henriot rispose con delle villanie e ordinando: «cannonieri ai vostri pezzi!».
Allora cadde il coraggio ai rappresentanti del popolo sovrano; Marat li ricondusse nella sala, dove concessero che venti deputati, due ministri (Claviére e Lebrun) e dieci membri del comitato dei Dodici fossero proscritti e condotti via dai gendarmi, se presenti.
La carriera politica della Gironda era finita. Ma le cose non finivano lì, perché la sua caduta attizzò la lotta tra i potenti del giorno, finché essi pure dovettero soccombere.


L'uccisione dell"AMI DU PEUPLE" Jean Paul Marat - Charlotte vibra il colpo mortale


Charlotte Corday

Prima di tutti il Marat, colpito il 13 luglio dal pugnale omicida della generosa Carlotta Corday. Questa giovine era stata presa da entusiasmo per i discorsi dei girondini e credeva, uccidendo Marat, di salvarli o almeno di vendicarli.


Si è soliti biasimare i girondini per il loro contegno politico. Certamente questo non fu senza colpa; i loro attacchi contro gli emigrati «traditori», contro i preti «senza patria» e contro il re «alleato con gli stranieri» hanno senza dubbio contribuito forse contro la loro stessa intenzione a far declinare l'autorità della rappresentanza della nazione e a rafforzare il club dei giacobini.
Non si può tuttavia dimenticare che essi anche se non avevano voluto la morte del re, erano stati sempre spinti avanti dalla sinistra a fare ciò che voleva la sinistra, cosicché soltanto di rado i loro veri i propositi erano riusciti a imporsi

Il loro errore dipese da un'idea falsa della libertà, dal non poter comprendere l'elemento bestiale nell'uomo e dal non avere una risoluta energia per combatterlo. Vi erano indubbiamente fra di loro degli oratori ricchi di fantasia, con ideali anche se non ben chiari, ma non degli uomini di Stato pratici all'azione.
Così la libertà si mutò per loro in una avventatezza, che i loro avversari cambiarono in dispotismo. Finirono certo col riconoscere il loro errore ed avrebbero volentieri messo mano ai freni, ma era troppo tardi, né era ormai più in loro potere di liberarsi dagli spiriti che avevano evocato.
In una lotta come quella, dove i moderati combattevano, anche se in un modo onesto, anche se meglio organizzati, di fronte all'uomo abietto e brutale, che sa quello che vuole soccombe sempre. E' triste ma è purtroppo così.
Quelli in chiacchiere si logoravano a parlare di difesa, a fare proposte, gli avversari facevano i fatti e crescevano le loro forze con l'attacco.

Il destino della Gironda, cioé la caduta dei moderati
é stato il destino della Francia.


IL REGNO DEL TERRORE > >

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