-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

173. LA POLITICA ESTERNA - LA GIORNATA DI MARENGO

 

Dopo le tante belle cose descritte nel precedente capitolo nei suoi primi mesi di consolato, a Bonaparte era necessaria la quiete all'interno, perché doveva ora sostenere una guerra esterna. Gli sarebbe piaciuto che si ponessero giù le armi, ma una pace come occorreva alla Francia si poteva difficilmente ottenere dai nemici senza far loro guerra. Tuttavia Napoleone fece il tentativo con due lettere a Vienna e a Londra, redatte in modo che il loro insuccesso dovesse fare sui Francesi quell'impressione da lui voluta. Così avvenne; i suoi nemici apparvero come assetati di sangue, con una sola volontà, quella di distruggere la Francia. Non erano in grado di farlo, ma dettero ugualmente questa impressione. E la Francia reagì con indignazione.

A quel punto sostenuto da tutta la nazione Napoleone poté armarsi con grande determinazione.

Nel suo complesso però la situazione non era sfavorevole. Lo zar Paolo si era ritirato dalla coalizione, la Prussia si cullava in pensieri di neutralità e l'Austria non aveva denari. L'arciduca Carlo malcontento aveva lasciato il comando supremo in Germania ed era stato sostituito dal generale Kray, uomo valoroso ma d'ingegno mediocre, che con i suoi 50.000 uomini andò nei pressi di Donaueschingen, ma si vide presto respinto presso la fortezza di Ulma, dove rimase poi lì rinchiuso. Non stavono meglio le cose in Italia. Al posto del generale russo Suvorow (che aveva mollato tutto indignato per le liti da comare dentro l'alleanza) era giunto il Melas troppo vecchio e troppo circospetto. Con 75.000 uomini sorprese 25.000 Francesi sotto Massena e li disperse, cosicché l'ala sinistra francese dovette gettarsi verso ponente e il resto dovette cercare un rifugio nei pressi di Genova. Melas li fece inseguire, poi fece assediare Genova in unione con una flotta inglese. Occorreva ai francesi affrettarsi se non si voleva che l'aiuto a Massena arrivasse troppo tardi.

Quest'aiuto fu portato da 60.000 uomini di un'armata che Bonaparte iniziò a raccogliere. Lui sa di essere osservato e prepara le truppe in un modo astuto. In un luogo raccoglie i giovanissimi di leva e i reparti più avvilenti, mal messi che sembrano straccioni, in modo che le spie austriache possano riferire e far sorridere la corte e la stampa viennese; mentre in un altra località sceglie e prepara personalmente - parlando quasi ad ognuno di loro - i migliori uomini senza far trapelare le proprie intenzioni, nè come saranno utilizzati, tanto meno dove. Sta concependo un piano ardito. Tutto è avvolto nel segreto della sua geniale mente. Nemmeno i più fidati generali ne sono a conoscenza. E quello che sta pensando a nessuno verrebbe nemmeno in mente. Ai primi di maggio li raccoglie presso Lione e Dijon. Mentre Moreau con 28.000 uomini si prepara a valicare il San Gottardo.

6 MAGGIO 1800  Dopo i preparativi, Napoleone lascia la Francia per la seconda campagna d'Italia. Arriva ad Auxonne, il giorno dopo a Dole e a Ginevra. Il 14 é a Losanna, il 17 al famoso bivio di Martigny. Qui si trova la strada che sale al Colle san Bernardo e scende poi ad Aosta ed è la classica via romana dai tempi dell'impero.
Quando iniziarono le conquiste al di là delle Alpi, proprio per la posizione strategica del Colle, i romani nel 25 a.C., alla base di entrambi i due versanti del Gran San Bernardo, crearono non una colonia o un semplice castro, ma due effettive città, Aosta un po' più grande (un rettangolo murato attorno, di m 724 x 572) che in onore di Cesare Augusto prese il nome di Augusta Pretoria perchè sede dei pretoriani di Augusto (da qui il nome Austa, poi italianizzato Aosta).
La città nata proprio come base strategica ha poi permesso a tutti gli imperatori romani di salire al valico per poi scendere al bivio di Martigny. Da una parte la Gallia con la strada fino a Parigi, mentre dall'altra si raggiungeva attraverso il Rodano la Mosella, il Reno, Augusta, l'alto Danubio, l'Inn, l'odierna Austria. .
Il piano di Napoleone è invece questa volta all'inverso: dalla "Gallia" all'Italia. Manda Moreau sul Reno contro i prussiani, mentre lui al bivio si ferma, non entra nella valle del Rodano, vuole ripetere l'audace avventura di Annibale, che nessuno esercito in quasi duemila anni ha mai più tentato.


Il 18 MAGGIO Napoleone fa prima una ricognizione al Colle con un giovane pastore. Quando arriva all'Ospizio a 2473 metri i vecchi monaci sono sbigottiti, credono a un miracolo; non sbagliano, sono proprio giorni di "miracoli". Il pastore non sa nemmeno chi sia questo francese che sta accompagnando, ma gli parla in italiano e allora cammin facendo gli racconta - lo straniero lo ascolta attento - tutte le sue disgrazie e i suoi desideri; che ama una donna ma che non può sposare perchè lui è un miserabile senza nemmeno un soldo, e i genitori della sua donna lo umiliano e l'oltraggiano. Una amara vicenda umana che si trasforma però in una fiaba. Dopo aver offerto il suo servizio di guida, due mesi dopo qualcuno si ricorderà di lui; l'umile pastore non solo riceverà una casa e un pezzo di terra in dono, ma sarà ricordato perfino nelle memorie di San'Elena da questo sconosciuto affabile personaggio che lui ha accompagnato al valico sul dorso del suo mulo.
20 MAGGIO - Napoleone con i suoi 32.000 uomini scelti, "osa" e valica il passo del Gran San Bernardo. Il giorno successivo scende nella "romana" Aosta; il 27 maggio inizia la discesa della valle. 
Napoleone gli austriaci lo aspettano al varco del Cenisio, ma lui puntando sull'audacia, sorprende tutti, salendo e scendendo come un'aquila le Alpi. Una traversata memorabile, suggestiva, temeraria. Ma Napoleone conosceva benissimo la storia romana, anzi lui andò oltre l'audacia di Annibale perchè aggiunse la sua geniale strategia. Scendendo da Aosta, la possente fortezza di Bard come un ciclopico macigno sbarra la valle in mezzo a due alte pareti di roccia (la possiamo vedere così ancora oggi). 
Passare da quella strettoia, per chiunque senza essere notato dalla fortezza, è una impresa impossibile. Con nessuna altra alternativa perché ai tempi di Annibale non esisteva la fortezza di Bard.
Impossibile per chiunque, ma non per Napoleone. Infatti la fortezza fu arditamente superata da un lato scavando in due giorni un sentiero-cunicolo nascosto nella roccia, cioè aggirando la fortezza. Non essendo molto distante, per smorzare il rumore rimbombante nella strettissima valle, con le tenebre fittissime, nella prima notte fu fatta passare nella galleria di roccia, nel massimo silenzio, prima la fanteria e la cavalleria a piccoli gruppi, mentre nella seconda notte, furono fatti scivolare i cannoni e i carri spargendo sul terreno e avvolgendo le ruote con della paglia. Quando i 30.000 francesi arrivarono a Ivrea, i nemici scoprirono con sgomento di essere stati beffati. Non una sola sentinella si era accorto di nulla. E si trattava della formidabile e da secoli inespugnabile fortezza di Bard.
Il migliore stratega del mondo non avrebbe mai avuto questa idea formidabile e così singolare. Ma lui era Napoleone! 

Dodici ore prima il comandante della fortezza aveva inviato alla sua consorte a Pavia una missiva rassicurandola che lui era tranquillo e sicuro; da Bard non sarebbe passato nessun francese. La lettera arrivò a destinazione nella città di Pavia proprio mentre vi entravano i francesi.

2 GIUGNO - Napoleone infatti, superate Bard e Ivrea, non ha più grandi ostacoli fino in Lombardia. Il 9 é a Pavia. Dopo aver attraversato il Po il giorno dopo è a Stradella, poi a Voghera e a Tortona, infine si prepara ad affrontare gli austriaci prima a Montebello, poi il.....14 giugno ottiene ....una sofferta e problematica vittoria (nel contesto generale decisiva per l'intera Europa).
I Francesi la ottengono a BOSCO Marengo. Ma in questa battaglia fu la grande (ma anche sfortunata) giornata del giovanissimo generale Desaix (nell'immagine sotto)  

L'armata, quella parte guidata e comandata da Napoleone, dopo aver occupato Marengo, era venuta a contatto con il nemico a Pietrabona; alle nove del mattino gli Austriaci con tre colonne iniziarono a sfondare i reparti francesi. Lo scontro per tutta la durata della battaglia fino alle due del pomeriggio fu sempre incerto, ma alle tre del pomeriggio la battaglia era purtroppo persa per Napoleone. Già contava alcune migliaia di morti e altrettanti feriti. Con le poche forze che disponeva, continuare la battaglia si sarebbe risolta in un suicidio di massa dei francesi.

La fine delle ostilità quindi non fu una resa dopo una totale disfatta, ma una sensata rinuncia a continuare, anche perchè l'esercito francese presagendo la sconfitta totale si era già disperso, era arretrato, abbandonava il campo, mentre Napoleone continuava a gridare loro "Fermatevi! Aspettate! Le riserve presto saranno qui; Desaix non è lontano". Nulla da fare, più nessuno lo ascoltava.
Dopo questa battaglia persa, assieme ai suoi soldati stava fuggendo anche la fortuna di Napoleone. E chissà con quali conseguenze politiche successive; sarebbe cambiata tutta la Storia d'Europa! L'Austria e la Prussia avrebbero trionfato, mentre a Parigi se Napoleone vi tornava vivo e sconfitto la "sua festa" era già stata programmata (come vedremo più avanti).

Gli austriaci la percepirono benissimo questa situazione critica, caotica e rinunciataria; alle quattro del pomeriggio già non avevano sul campo di battaglia più francesi. I piccoli gruppi isolati che vi erano ancora impegnati li massacrarono. Dopo mezz'ora tutto era finito. Alle cinque del pomeriggio, i soldati austriaci ritiratisi nei propri accampamenti, in un modo disordinato e sciatto, si misero a celebrare la vittoria. Il loro comandante Melas partecipò anche lui alla iniziale festa, poi tranquillo e soddisfatto della giornata, si ritirò al quartier generale di Alessandria (a 15 km), non prima di aver mandato un messaggero a Vienna per annunciare la vittoria. "Napoleone sconfitto. Nei prossimi giorni gli daremo il colpo di grazia". Era quella una analisi realistica. Se gli austriaci muovevano anche da Genova, presto Napoleone lo avrebbero sicuramente stritolato in una tenaglia. 

Gli austriaci lo avrebbero potuto fare la sera stessa, i francesi erano già quasi circondati, invece abbandonando Marengo, disordinatamente si ritirarono verso San Giuliano; e questo fu un grosso errore di Melas e dei suoi uomini.
Sulla spianata di Marengo, tra gli avviliti francesi e gli esultanti austriaci, in mezzo al campo, trascorsero tanti inavvertibili istanti. La Storia vista da un immaginario spettatore, nell'indugiare sul campo già disseminato di cadaveri, sembrò di proposito volesse ignorare il tempo, che trascurasse lo scorrere dei minuti, come se volesse battere solo la sua "ora storica". E come nelle cronache dei tempi passati, nel campo di battaglia di Marengo, la Storia in questi minuti rallentò vistosamente, come se esitasse a proseguire o volesse mutar direzione.

Napoleone poi, di questi istanti fatali ne aveva conosciuti già due. A Tolone nel 1793 e a Parigi nel 1795. Anche lì il destino indugiò qualche minuto poi il rintocco di un'ora fatale fece mutare la direzione della sua vita e della Storia.
A Marengo il destino ricomparve sul campo di Battaglia quando per Napoleone non c'era quasi più nessuna speranza di modificare la sua vita e la Storia. Di minuti ne erano passati sessanta, ma allo scoccare dell'ora, la Storia aveva deciso quale direzione prendere: di andare incontro a Napoleone.

Infatti nel tardo pomeriggio, alle ore 6 di sera (siamo a metà giugno, quindi molto chiaro)  piombò sullo scompaginato campo francese il Generale Desaix. Come mai? 
Eppure profeticamente ancora a Parigi, quattro mesi prima, Napoleone aveva puntato uno spillo sulla cartina proprio in una zona a un chilometro da Marengo, affermando ai presenti "qui avverrà la mia prossima grande battaglia". Che cosa era accaduto?

Napoleone, non conoscendo esattamente la consistenza dell'esercito austriaco, convinto di poter affrontare gli austriaci con i suoi scelti reparti, il giorno prima -il 13- al bivio di Villavernia (a una quindicina di chilometri a est) aveva incaricato il giovanissimo generale al comando della divisione Boudet di portarsi a sud, in perlustrazione su Novi ma soprattutto come protezione del fianco sinistro. Da Genova infatti potevano giungere gli Austriaci; voleva in sostanza Napoleone coprirsi la spalle nella sua avanzata verso ovest, a Bosco Marengo, quindi a 10-11 km a nord di Novi. 
Desaix non fu impegnato in nessun scontro nè trovò tracce di eserciti in quei paraggi. Fu allora che ebbe l'intuizione. Forse a nord, proprio verso Marengo, gli austriaci avevano deciso di attaccare, di mettere in atto il grande scontro partendo da Alessandria (zona Pietrobona). Poi, quando in lontananza sentì il primo rimbombo di cannone, non ebbe più i dubbi, lasciato Novi a pomeriggio inoltrato, avanzando a tappe forzate, comparve alle spalle di Napoleone e "sulla nuova scena della Storia" alla 6 di sera. 

Contro il parere di tutti i generali, afferrata la situazione e le condizioni in cui era il nemico - che di sicuro non aveva previsto l'arrivo dei rinforzi e tanto meno un attacco a tarda sera - Napoleone e Desaix in un lampo si riorganizzarono. Prima con la cavalleria al galoppo guidata da Kellermann, che riuscì a infilarsi nella falla dell'avanguardia austriaca che si era già staccata dal resto dell'esercito; poi con la divisione di Desaix, travolgendo ogni ostacolo si gettarono nuovamente nella battaglia con gli austriaci appiedati e scomposti. 


Nel quadro che qui abbiamo inserito, dipinto dal generale artista LE JEUNE - che era presente -  abbiamo una ricostruzione abbastanza fedele di quello che accadde. Nello sfondo si notano appunto gli austriaci ammassati e appiedati, mentre i francesi li stanno travolgendo con la cavalleria.

La sorpresa per gli austriaci - già spogli di armi, avvinazzati, e da più di un ora impegnati a far festa - fu enorme ma anche spaventosa. Iniziarono a difendersi in qualche modo, senza un capo, un comando, una strategia difensiva; qualcuno si precipitò ad avvertire il comandante ad Alessandria, ma quando arrivò a Marengo il suo esercito era già completamente distrutto, annientato. I morti da entrambe le parti erano così tanti da sconvolgere il più insensibile generale. Ottomila austriaci e settemila francesi che erano caduti nella precedente battaglia, giacevano morti sul terreno
(Nella piana di Marengo sorge ancora oggi il grande ossario. Si disse che per molti anni i contadini del luogo trovavano tra le zolle e gli anfratti i miseri resti di questa carneficina).
Napoleone nelle sue Memorie, e nella lettera subito dopo la battaglia, inviata la sera stessa all'imperatore austriaco per chiedere la fine di questa folle guerra, scrive:
"La Guerra è avvenuta... Migliaia di francesi e di austriaci sono morti....Migliaia di famiglie desolate reclamano i loro padri, i loro sposi, i loro figli!...Ma il male compiuto è senza rimedio: valga almeno come ammaestramento e ci faccia evitare quello che deriverebbe dal continuare le ostilità. E' dal campo di battaglia di Marengo che vi scrivo, tra le sofferenze, circondato da 15.000 cadaveri. Da questo luogo scongiuro Vostra Maestà di ascoltare il grido di umanità.....Diamo il riposo e la tranquillità alla generazione presente. Se le generazioni future sono così folli da battersi, ebbene!, apprenderanno, dopo qualche anno di guerre, ad essere sagge e a viver in pace".

Purtroppo l'audace e vittorioso intervento di Desaix fu funestato anche dalla sua morte. Colpito mortalmente in battaglia, spirò più tardi bisbigliando una frase profetica "Rimpiango di non aver fatto abbastanza per entrare "con" Napoleone nella Storia, nella memoria dei posteri". Si sbagliava! Marengo non è una vittoria di Napoleone, ma di Desaix. Ed ecco qui che lo ricordiamo "con" Napoleone. Di diritto anche Desaix con Napoleone è entrato nella memoria dei posteri. E fin quando esisterà Marengo, Desaix assieme a Napoleone sarà sempre ricordato! (Del resto Napoleone non dimenticò mai nè Desaix e neppure Marengo; non a caso questo nome lo fece incidere sulla sua sciabola! Un alto significato lo doveva pur avere!)

Dopo la battaglia, innalzarono un'altissima colonna a ricordo, con alla sommità un aquila.
Gli austriaci poi alla caduta di Napoleone, per non lasciare questo simbolo della loro vergogna, la colonna la sottrassero intera e la fecero sparire. D'Annunzio casualmente la ritrovò abbandonata poi a Fiume dopo 119 anni, nel 1919, e la rimise al suo posto. Dove si trova ora.

Lo sfortunato DESAIX quasi coetaneo di Napoleone (30 anni), di nobile famiglia, entrato giovanissimo nell'esercito aveva alle spalle già una carriera splendida. Partecipò giovanissimo con Napoleone nelle guerre della rivoluzione; nel '98 era comandante dell'armata napoleonica d'Oriente e fu un protagonista alla battaglia delle Piramidi; lui a battere i Mamelucchi, lui a prendere il comando dopo la partenza di Napoleone, lui a evacuare le truppe dall'Egitto. Napoleone nella campagna d'Italia di quest'anno l'aveva voluto accanto a se' all'ultimo momento (combattè -e morì- vestito in borghese) affidandogli il comando della divisione Boudet; quella che gli ha salvato in extremis la sua carriera, ma anche aveva stroncata in un generoso slancio quella di Desaix.

Napoleone davanti a questa tragedia, rimane sul campo di battaglia con l'animo doppiamente turbato, e a ragione, fa alcune amare considerazioni. Davanti a sè ha una montagna di cadaveri; ha perso uno dei suoi migliori generali; e cosa più grave lo sconfitto è lui, perchè la vittoria in extremis è merito di Desaix. La lettera sopra inviata all'imperatore, dimostra che Napoleone in questa circostanza (anche se sa che questa battaglia conclude una brevissima campagna in un modo trionfante, e come vedremo anche determinante) è profondamente sconvolto, e rivela per la prima volta tanta sensibilità, tanta amarezza e un forte desiderio di pace, soprattutto quando alla lettera di sopra aggiunge queste tre righe: 
"L'astuzia degli Inglesi ha impedito l'effetto che il mio passo a un tempo semplice e aperto doveva produrre sul cuore di Vostra Maestà. Senza turbarmi per l'inutilità della prima iniziativa (N. prima di iniziare la campagna in Italia aveva già chiesto agli inglesi con una precedente lettera di evitare questa guerra) mi decido ancora a scrivere direttamente a Vostra Maestà, per scongiurarla di por termine alle sventure del continente". (che profeta!)

Napoleone è dunque diventato dopo Marengo un pacifista? In seguito per anni e anni lo dipinsero (anche miseramente) come un "mostro", un "ambizioso", un "sanguinario", un "macellaio". Ma se analizziamo bene tutto il suo operato, non prima di aver spazzato via tutti i falsi (abilmente costruiti) pregiudizi cristallizzati, e se rileggiamo le sue vere memorie, la concezione napoleonica è grandiosa. Si è sempre cercato di occultare la grande idea federalista europea, ed ecco che giunti nel 2000 ci dibattiamo ancora sulla sua realizzazione, innanzitutto politica.

Ecco cosa diceva il "folle":
"...Abbiamo bisogno di una legge europea, di una Corte di Cassazione Europea, di un sistema monetario unico, di pesi e di misure uguali, abbiamo bisogno delle stesse leggi per tutta Europa. Voglio fare di tutti i popoli europei un unico popolo... Ecco l'unica soluzione che mi piace." (N. )

Eccola qui chiara, la visione napoleonica degli Stati Uniti d'Europa. Un disegno genialmente demoniaco nella sua origine, perfettamente razionale nelle sue deduzioni:
"L'Europa non è più una tane di talpe...Quello che vuole ottenere a forza coi suoi 800 mila uomini dovrà un giorno fondersi, spintovi dalla ragione e dalla necessità, in un patto spontaneo: un giorno da tutti quei popoli ne nascerà solo uno di popolo ... Ecco l'unica soluzione che mi piace." (N. )

Ma i politici di oggi conoscono Napoleone?
Qui non si parla nè di una fusione dittatoria delle diverse stirpi, nè di un sentimentale affratellamento: soltanto (lucidamente) di interessi e di riunioni di stirpi già per sè affini. Il secolo XIX ebbe il compito di creare le condizioni preliminari fondando le nazioni, il secolo XXI comincia ad attuare l'idea napoleonica (con il ritardo di due secoli).

Questo era l' "ambizioso" che a San'Elena rammaricandosi scriveva:
"... L'Europa sarebbe diventata di fatto un popolo solo; viaggiando ognuno si sarebbe sentito nella patria comune... Tale unione dovrà venire un giorno o l'altro per forza di eventi. Il primo impulso è stato dato, e dopo il crollo e dopo la sparizione del mio sistema io credo che non sarà più possibile altro equilibrio in Europa se non la lega dei popoli".
"Io confisco a mio vantaggio le due forze in ascesa del XX secolo, il liberalismo e il nazionalismo"
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""deve passare una generazione, poi i giovani che verranno, capiranno, e vendicheranno l'oltraggio che io ora soffro qui"
(dal Memoriale di San'Elena )

Di generazioni da allora ne sono poi passate non una ma otto, e siamo ancora all'indefinito.

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Dopo Marengo, Napoleone sa che la Francia, il popolo francese, ha bisogno di gloria ma sa anche che ha bisogno di pace, e agisce per la pace. Ma ci sono gli altri Stati che non vogliono rinunciare alla loro potenza e alla loro egemonia, politica ed economica (ma spesso solo per conservare la propria dinastia). D'ora in avanti le situazioni diventeranno per lui sempre più difficili. Persino nella stessa sua Francia. Infatti ad accrescere la sua inquietudine, proprio a Marengo, il giorno dopo (a Parigi hanno già saputo cosa è accaduto di bene e di male a Marengo) gli giunge tempestivamente dalla capitale un rapporto di Fouchè (capo della polizia): "Telleyrand all'ora di pranzo ha adunato i suoi fidi amici per discutere cosa fare qualora a Napoleone tocchi la sorte di Desaix o venga battuto".
Napoleone legge, fa un sorriso di scherno, poi con un'amara piega di tristezza sulla sua bocca commenta "Questi sono gli amici, questi sono i fidi! Si sono spaventati. La loro preoccupazione è già quella di liberarsi del "tiranno".

Mentre a Marengo Napoleone scrive e manifesta sentimenti nobili, a Parigi c'è calcolo, cinismo. E' partito Console, ma a Parigi lo considerano un militare, già pronti -se perde- a pasteggiare o sul suo cadavere o a silurarlo.

Ma in poche settimane Napoleone ha chiuso una difficile e delicata campagna militare, ha ristabilito il suo prestigio e la sua vitalità e nell'esercito è ritornata "l'anima". E' ritornato dall'Egitto, ha sconvolto Parigi, é poi sceso in campo, e in una sola battaglia ha riproposto il suo genio fuori del comune. E' riconosciuto campione d'Europa e ottiene rilevanti risultati. Nei prossimi mesi la Francia a Luneville firmerà la pace con l'Austria, la Prussia, la Baviera, la Russia, Napoli, Spagna, Portogallo e perfino con l'Inghilterra; qui, morto l' irriducibile Pitt è stato nominato Fox, che Napoleone invita subito a Parigi, e il neo eletto torna sull'isola perfino entusiasta di Napoleone.

La fiducia tributata dalla Borghesia Francese al Primo Console si propagava paradossalmente a quella Inglese (gli affari sono affari- anche mettendosi contro la politica). I commerci sperano in una lucrosa ripresa dei traffici con la Francia. 
Eppure nonostante questo successo e il grande desiderio di pace espresso a Marengo, -perfino accoratamente come abbiamo letto- Napoleone proprio dopo questa vittoria, sarà costretto a tenere la mano costantemente sulla spada. Questo sarà forse il più terribile paradosso della sua posizione: avere continuamente bisogno della pace, ed essere costretto a fare la guerra.

Sa che "amici" e "nemici" stanno affilando le loro armi dentro le ambigue sale diplomatiche di mezza Europa con i patti più inquietanti. 
Della impressionante giornata di Marengo, Napoleone nei suoi sei anni di esilio a Sant'Elena conserverà un ricordo vivissimo. Non a caso Las Cases (il maggiordomo estensore delle sue memorie) riporta questa passo:
"...fece una passeggiata ma rientrò di buon'ora, alle tre; mi fece segno di seguirlo nella sua camera dicendomi "Sono triste, adagiatevi su questa seggiola e tenetemi compagnia", poi si stese sul canapè, e chiuse gli occhi; io ero a un passo dalla sua persona, gli vigilai accanto...Il suo capo era scoperto...io contemplavo la sua fronte, quella fronte, sulla quale leggevansi i ricordi di Marengo...Chi può esprimere quali fossero le mie idee, le mie sensazioni!...Lo si immagini, seppur ciò è possibile: quanto a me non saprei certamente spiegarlo!" (Memoriale di San'Elena, 1a ediz. originale, pag. 679).

E se Las Cases -fra tanti ricordi, tante tragedie, tante disgrazie- cita proprio Marengo, è perchè Napoleone lo ha fatto più volte partecipe del grande turbamento che lui avvertì a Marengo, pur avendo vinto, non perso.
Di quelle "sventure sul continente" di cui parlava in quella lettera da Marengo, alcune erano già accadute, e molte altre accadranno; aveva dunque delle buone ragioni per essere turbato. Aveva anteveduto l'intera storia d'Europa dei successivi decenni del suo e del nostro secolo, quando tutti i belligeranti europei nell'incapacità di mettersi d'accordo (più per beghe familiari e gelosie dinastiche), nello sfacelo uscirono dai conflitti tutti sconfitti: e non solo fecero crollare i loro tre imperi, ma causarono uno spostamento della potenza internazionale, e posero termine alla potenza europea.

Ma a MARENGO in mezzo a uno spettacolo di morte, nel turbamento della coscienza, accadde anche qualcos'altro durante quelle profonde riflessioni fatte sul campo di battaglia dove la fede che lui poneva nei suoi cannoni e nel suo reggimento vacillò, anche a vittoria raggiunta.
Ci fu il riavvicinamento alla religione. Vandal ha lasciato scritto che "il Concordato Consalvi fu una conseguenza di Marengo". A Milano pochi giorni dopo la battaglia, Napoleone nel suo intimo era già un altro uomo. Con la vittoria sapeva benissimo che era ormai padrone di fare quello che voleva. Ma nel desiderio di apparire ricostruttore di un critico equilibrio, troviamo anche profonde ragioni che lo spingeranno verso il Concordato, nato pochi giorni dopo Marengo.

18 GIUGNO - Pochi giorni dopo la battaglia di Marengo, Napoleone entra trionfalmente a Milano. Nel Duomo viene celebrato un solenne Te Deum di ringraziamento. Napoleone entra nella cattedrale (ha ancora davanti agli occhi i quindicimila cadaveri, la lettera di Parigi di Fouchè, ricorda perfettamente quella inviata all'Imperatore, e sa che tutta l'Europa sta chiedendosi cosa accadrà ora), assiste a questo particolare inno liturgico, e forse sente il bisogno, l'attrattiva di una fede nell'intimo della sua coscienza, forse capisce in un lampo di spiritualità religiosa naturalistica, che questo suo bisogno è anche quello intimo di milioni di uomini. Che è suo dovere, e anche suo interesse di capo dello Stato (ora ancora più forte), accordare agli uomini libero esercizio della religione; che prima ancora di avere un contenuto filosofico dogmatico e intellettuale verso la divinità, è il legame morale (norme etiche) che hanno permesso lo sviluppo storico-sociale dei gruppi umani.

L'atteggiamento di Napoleone verso le religioni era sempre stato di scetticismo, di diffidenza; in certi scritti non mancano allusioni ironiche alla fede, ha quasi in antipatia certe pratiche che considera superstiziose. Non era insomma nè un religioso e tanto meno un cattolico. La sua cultura era tutta illuministica; la sua educazione si era del resto formata su letture profane, belliche e perfino spregiudicate; era sempre vissuto nelle guarnigioni. Aveva provato le frastornate giornate rivoluzionarie. Il realismo politico che conosceva era uno solo: quello delle campagne militari e delle battaglie. La sua fede era nei cannoni (ricordiamoci cosa fece a Tolone e a Parigi) e fede nei suoi uomini che gli vivevano accanto, spesso idolatrando proprio lui.

A Milano tentennano queste sue uniche concezioni, e ha un'attrattiva forte di altro genere, ma ancora imprecisa.
Quando al Te Deum parla ai prelati di Milano, parla come il capo di una grande nazione cattolica: atti e parole sono d'istinto già... da re-imperatore (inconsciamente o no sta creando una monarchia già di fatto). E sente in questa veste il bisogno di accennare a un concordato con il cardinale Martiniana. Forse agisce l'emotività di questo particolare momento (il dopo Marengo), forse le sue origini italiane, forse l'atavismo religioso dei suoi antenati; forse l'ammirazione della salda unità della Chiesa, la sua gerarchia, la disciplina, il rito dello stesso Te Deum; infine forse la storia di Roma, che conosce molto bene, lui sa tutto dell'antico impero. 
Ed è cosciente che da questo momento sarà lui a dominare sull'Europa e su Roma stessa, che significa imperare politicamente sul Mediterraneo; il possesso dell'Italia significa appunto questa autorità, maggiore di quella del passato, perchè Roma non è solo quella classica che, repubblica e impero, unificò l'Europa, ma è anche il centro di quel cristianesimo che ha poi ereditato la saldezza del Sacro Impero romano. Il Cristianesimo stesso potè diffondersi per il mondo soltanto dopo che si fu trasferito a Roma, nel cuore del Mediterraneo, quel mare predestinato dall'inizio dei tempi ad essere il centro di tutte le civiltà.

Napoleone non sfugge a questo richiamo del grande passato; sa ormai di essere militarmente potente, dunque Roma e il Mediterraneo è in cima a tutti i suoi pensieri e cerca il mezzo per stringere un patto proprio con la Roma papale.
E' in Italia che sono nati gli Imperi, é Roma la città imperiale per eccellenza, che per secoli fu alla testa del mondo. E' Roma che ha sempre esercitato il fascino profondo sui popoli e sui condottieri; un Imperatore non è tale se non è incoronato a Roma; dai Longobardi in poi tutti sono scesi in Italia e a Roma per ricevere la sacra investitura; per avere autorità e diritto a reggere il mondo. Tutto questo Napoleone non lo ignorava già prima, in gioventù si era nutrito di opere classiche. Ma ora era diverso, era cosciente dopo Marengo che lui stava entrando nella storia di tutti i popoli d'Europa, come i grandi imperatori romani.

I motivi di questa ambizione li esporrà con lucida profondità Alberto Sorel nel VI volume della sua Storia: "Napoleone desiderava il Concordato con la Chiesa perchè voleva associare le coscienze alla sua grande opera di pacificazione nazionale; farsi aiutare dal clero nella sua ricostruzione della vita spirituale del popolo francese e tranquillizzare quelli conquistati; mettere il vescovo accanto al prefetto (questa era una figura romana) e in tal modo esserne aiutato, ma insieme sorvergliarlo, tenerlo alle sue dipendenze; completare con la conquista delle anime la sottomissione del paese e dei paesi; soddisfare infine, dopo gli interessi della vita civile, le profonde e intense aspirazioni religiose dei popoli".


Non tutti erano pronti a queste grandi progetti. Il nuovo Papa di quest'anno, quasi gli è vicino (è anche lui affascinato da quest'uomo) ma o per un improvviso ritorno al conservatorismo della Chiesa, o per la forte protesta di alcuni cardinali, ritratterà poi molte concessioni.

Quando rientrerà a Parigi, sappiamo che Napoleone ha questo stato d'animo e questi sentimenti. Ed è anche coraggioso, perchè si mette contro i politici imbevuti di idee illuministiche, contro generali, letterati, giornalisti, borghesia colta e intellettuale; inizia le epurazioni e vuol mettere fine alla "pagliacciata" del "culto della ragione"; sa che gran parte del popolo francese vuole ritornare alla religione cattolica, che non è intellettuale ma è congenita-educativa, perchè è atavica; ha tenuto insieme la famiglia, il borgo, ha difeso alcuni valori, e nei riti ha dispensato commozione e spiritualità.

E se la "Sovranità del popolo" ora esiste, lui vuole avere rispetto ed essere il sostenitore della sovranità popolare. Aspro e sarcastico, Delmas, un suo generale, nel vederlo prendere contatti con prelati e monaci, commenta che sta facendo "una bella cappuccinata". Ma lui risponde "Non voglio più spargimento di sangue.... Ho bisogno del papa... lui solo può riorganizzare i cattolici di Francia nell'ubbidienza repubblicana", poi profeticamente aggiunse, accennando ai rabbiosi oppositori "Questo secolo che inizia, non prenderà il nome da loro, ma da me. Deve essere mio pensiero non legare il mio nome a nessun atto indegno". 

Questi atteggiamenti hanno certo un significato politico, indubbiamente devono risolvere problemi di carattere pratico, ma nell'intimo della sua coscienza vi è molto altro, anche se sono ancora aspirazioni imprecise. Davanti a Thibaudeau afferma "Si dirà che io sono papista. Io non sono nulla. Ero maomettano in Egitto, sarò cattolico per il bene del popolo. Io non credo nelle religioni. Le legioni romane dove giungevano tolleravano ogni religione locale".

Poi pochi giorni dopo torniamo al punto di partenza, all'intimo dei suoi sentimenti commossi che ci rivelano un altro Napoleone. E' sempre Thibaudeau a raccontarci questo successivo episodio narratogli da Napoleone: "Domenica scorsa ero qui, in questo giardino, in questa solitudine, in questo silenzio della natura. Tutt'a un tratto una campana poco lontano suonò: fui commosso....Allora pensai: che impressione deve fare questo su uomini semplici e creduli!....Il popolo ha bisogno di una religione, e questa religione deve essere nelle mani del governo". 
Ha 31 anni, ma è già sulla lunghezza d'onda di un Costantino.

Ma ritorniamo a Milano. Se il Te Deum ha consacrato la sua vittoria di condottiero, i festeggiamenti che si conclusero con una grande serata a La Scala hanno celebrato il suo trionfo da re.
Questa fulminea e fortunata vittoria ora apre a Napoleone le porte dell'Impero. A Parigi "amici" e "nemici" lo attendono per tributargli feste e onori. Nel resto d'Europa c'è invece tanta inquietudine.
Liberata la Liguria e il Piemonte, in Lombardia viene restaurata la Repubblica Cisalpina; più tardi ne farà parte anche Novara e la Lomellina. Mentre Genova dopo essere stata evacuata dagli austriaci è governata da un governo filo-francese.

25 GIUGNO - Improvvisa partenza di Napoleone da Milano, con direzione Torino. Un incontro e un colloquio con i Savoia non è registrato dai sabaudi, ma Napoleone a Torino si fermò a fare indubbiamente altri patti molto chiari. Infatti alla pace di Luneville il Piemonte verrà poi annesso alla Francia.

2 LUGLIO - Napoleone già preceduto dalla gloria, arriva a Parigi. Ma dopo quell'informativa a Marengo di Fouchè , si muove con prudenza tra i "fidi amici". Non essendo ancora un mondano sopporta i numerosi ricevimenti in suo onore; poi inizia subito il suo nuovo lavoro: un fecondo lavoro, da questo 1801 fino al 1805. 

E se prima la sua forza si fondava sulle eccezionali doti militari, Napoleone all'improvviso inizia a brillare anche per le sue capacità amministrative e legislative. Sulle riforme, il merito di Napoleone é di aver introdotto in Europa con i suoi Codici le fondamenta della borghesia e della società moderna. In quello Civile, sancisce la scomparsa dell'aristocrazia feudale e afferma i principi del 1789: Diritti dell'Uomo; la libertà personale; l'uguaglianza davanti alla legge; l'istituto della famiglia; la laicità dello Stato; la libertà di coscienza; la libertà di espressione, di culto e la libertà di lavoro.

Ed e' questa l'opera (una grande costruzione) di Napoleone che sarà la più duratura nel tempo.
In molti articoli del codice civile, si notano le influenze personali di Napoleone, l'eco delle sue parole, il riflesso della sua coscienza, e perfino l'eco profondo della sua infanzia. (quando affronta l'istituto familiare ha presente i brutti giorni della fuga a Nizza di suo padre con la madre e sette fratelli a vivere tutti eroicamente di stenti ma sempre uniti).
Lo aiutano con le loro vaste esperienze giuridiche Tronchet, Bigot, Malleville, Portalis, ma il pensiero che sorregge il codice e lo spirito che lo anima, con tanta semplicità e tanta chiarezza sono di Napoleone.
Partecipò a quasi tutte le sedute del Consiglio, discusse parola per parola ogni intricata questione con la sua lucidità e il suo ragionamento, cogliendo immediatamente l'essenziale. Portalis e Tronchet ce ne hanno tramandate le testimonianze; e gli scrissero il migliore epitaffio per i posteri: "Imparammo anche noi; egli era la giovinezza legislatrice, era un Solone prima di essere Cesare". 

Tre, quattro correnti storiche del diritto hanno confluito nel formare il Codice Napoleonico. Si sono fuse e armonizzate ai tempi nuovi. E ogni volta che a Napoleone sembrò necessario, alcune leggi furono corrette, altre modificate altre ancora abolite. Ma se fu relativamente facile per quelle legate alle vecchie tradizioni, molto ma molto più difficile fu il compito nel toccare quelle che erano nate dal travaglio della Rivoluzione. Nell'anarchia ognuno si era fatto le sue leggi, si era fatto la nicchia delle proprie impunità. 
Furono imposte le nuove da un "tiranno" come si volle far credere dopo? Sembra proprio di no; di fronte un esame scrupoloso, una imponente costruzione come questa, anche una grande assemblea -senza un'unica geniale mente direttiva- non avrebbe potuto mai farla nascere, nè avrebbe potuto ottenere nel giro di pochi mesi dei risultati; e nemmeno sarebbe rimasta nel tempo. 


Toriniamo al dopo Marengo. A Vienna Thugut si opponeva ad una pace affrettata, sebbene le cose volgessero male anche in Germania, dove il Moreau aveva sempre più respinto indietro il suo avversario, occupando anche Monaco. Si venne così a un armistizio e a delle trattative in Parigi, nelle quali l'astuto Talleyrand strappò all'incaricato d'affari austriaco una proposta di pace sulla base dei patti stipulati a Campoformio. Questa proposta fu però respinta a Vienna. Thugut dette le sue dimissioni, Cobenzl e Coloredo presero la direzione del governo. Di questo intervallo approfittò l'Austria per armamenti così considerevoli, da poter mettere di nuovo in campo 130.000 uomini, dei quali ebbe il comando l'incapace arciduca Giovanni. Quando lui si fece assalitore, fu improvvisamente attaccato da Moreau presso Hohenlinden e battuto completamente. I Francesi si spinsero verso Vienna, minacciata anche dal lato Italia. In simili angustie l'Austria il 25 dicembre concluse i preliminari di pace di Steyr, a cui seguì il trattato definitivo di pace di Luneville.

La posizione di Bonaparte era straodinariamente migliorata; era entrato perfino in relazioni d'amicizia con la Prussia e con la Russia, tanto da poter dettare delle condizioni. Chiese come confini il Reno e l'Adige e li ottenne ambedue. Il Cobenzl chiamò spaventevole questa pace, ma non vide altra via di uscita.
Già il 6 marzo l'impero germanico aderì all'accordo, che gli costava 3 milioni e mezzo di abitanti. Per buoni uffici dello zar Paolo anche Napoli ottenne una pace tollerabile, chiudendo i suoi porti agli Inglesi, e poiché la Spagna già passata alla politica francese, un esercito franco-spagnolo poté costringere il Portogallo a rimandare a casa gli Inglesi.

Lo Zar d'altra parte si sentì ora offeso dalla conquista inglese di Malta, essendo gran maestro dell'ordine di S. Giovanni. Pose perciò il sequestro su tutti i possessi inglesi nei suoi Stati, e nel dicembre 1800 rinnovò con la Svezia e la Danimarca una lega di neutralità armata diretta contro l'Inghilterra, alla quale lega accedette poi anche la Prussia. Questa su disposizioni di Napoleone occupò perfino l'Annover, unito con la Gran Bretagna, per cui furono sottratte al commercio con quell'isola l'Elba, il Weser e l'Ems.

Quale cambiamento nella situazione generale politica! Appena un anno prima nel 1799 tutta l'Europa si trovava ancora in armi contro la Francia, ora questa medesima Francia stava in modo predominante a capo delle potenze del continente contro l'Inghilterra. E questa non era solamente isolata, ma Bonaparte già decideva di raccogliere navi nella Manica per assalirla. Essa tuttavia era già assicurata dalla sua posizione e dalle sue forze marittime, e di quello che perdeva in Europa in territori e in mercati commerciali, poteva compensarli fuori da questa parte del mondo.
Avvenne inoltre un consolidamento sostanziale delle sue condizioni interne, perché si riuscì grazie all'atto di unione a fondere col parlamento inglese, quello irlandese di Dublino, che ne era stato fino allora separato. Tutto stava prendendo una piega promettente, quando il re si oppose al diritto elettorale dei cattolici.

Pitt presentò le sue dimissioni ed ebbe per successore Addington, uomo mite ed accorto, ma poco rilevante. La neutralità armata delle potenze del Nord preparava difficoltà sempre più gravi, poiché quelle possedevano insieme 41 vascelli di linea. L'Inghilterra non voleva lasciarsi sorprendere da una minaccia simile e mandò nel Sund una flotta sotto l'ammiraglio Parker, con Nelson per viceammiraglio. Questa si volse contro Copenaghen, difesa da 700 cannoni, e la bombardò il 2 aprile I801.
I Danesi si difesero valorosamente, ma finalmente il loro fuoco si affievolì di fronte a quello di Nelson. Quando egli offrì una tregua, ottenne che gli fosse consegnata la flotta nemica. La Danimarca si trovò tanto più disposta a cedere, essendo stato assassinato in Russia lo zar Paolo.

L'eccitabilità del sovrano russo si era infatti accresciuta quasi fino a divenire una malattia mentale, tanto da porre in pericolo la vita di quelli che lo avvicinavano. Ne nacque una congiura di palazzo, a cui egli egli soccombette nella notte del 24 marzo, dopo una violenta difesa; dopo il fatto suo figlio Alessandro I fu proclamato imperatore. La morte di Paolo voleva dire il crollo della seconda lega armata dei neutrali. Le potenze settentrionali s'intesero con l'Inghilterra; anche la Prussia ritirò le sue truppe dall'Annover.

Bonaparte riconobbe un emulo nel giovane ed ambizioso Alessandro e sentì anche quanto fosse difficile abbattere la supremazia dell'Inghilterra sui mari. D'altra parte era chiaro che la Gran Bretagna non poteva per terra nuocer molto ai Francesi, e in Londra si desiderava con insistenza di porre ordine alle finanze alquanto scosse. Siccome anche Bonaparte aveva bisogno della pace per le sue riforme interne, vi erano le condizioni prime per una pace. Tuttavia questa offriva difficoltà straordinarie, principalmente riguardo all'Egitto, dove il primo console aveva fortemente impegnato il suo onore.

Finalmente il 1° ottobre 1801 furono stipulati i preliminari di pace a Londra e il 25 marzo 1802 dopo lunghi negoziati il trattato definitivo ad Amiens. In questo l'Inghilterra evitò più che fu possibile le questioni riguardanti il continente mentre la Francia ecitò quelle marittime. La prima ottenne Ceylon e Trinidad, restituendo in cambio le rimanenti colonie e Malta. Furono garantiti i territori della Turchia e del Portogallo; lo Stato della Chiesa e Napoli dovevano essere sgombrati dai Francesi, dagli Inglesi i porti da loro occupati nel Mediterraneo.

Il trattato era favorevole alla Francia ed era integrato dalla pace già conclusa con la Russia e con la Prussia. Con quella Bonaparte aveva combinato una condotta comune nella questione delle indennità ai principi tedeschi e in quelle riguardanti l'Italia.
Il primo console trionfava nel suo splendore di capitano, di apportatore di pace, di domatore della Rivoluzione. Aveva procurato alla Francia quella posizione, per la quale essa aveva invano lottato durante dei secoli. La Francia era allora la potenza dominante in Europa, circondata da stati vassalli più o meno dipendenti; decideva i fati del Continente, mentre Bonaparte era l'eroe del secolo.

Ma appunto per questo (ma anche perchè aveva solo 31 anni!) non era l'uomo da accontentarsi di quanto aveva conseguito. Prima di tutto occorreva spremere ancora denari dai piccoli Stati, che stavano nell'àmbito nella potenza francese, e vincolarli a questa anche più solidamente. A tempo del Direttorio avevano ricevuto una costituzione direttoriale, ora poi dovevano essere resi felici da una costituzione consolare.
Quella della repubblica cisalpina fu foggiata secondo il modello francese. A capo di essa stavano un presidente e un vice-presidente, nominati per dieci anni, con prevalenza assoluta del presidente, dignità che Bonaparte fece conferire a sé stesso, cambiando il nome di repubblica «cisalpina» in quello di «Repubblica italiana». Il conte Melzi di Milano ne divenne il vicepresidente e rappresentò il Bonaparte durante la sua assenza.

 

Così quella repubblica ottenne una costituzione, ma il potere e la nomina dei funzionari stava essenzialmente in mani straniere. Tuttavia si ebbe un periodo di quiete e si poté prendere una serie di disposizioni benefiche. A dire il vero vi fu anche un gran malcontento, specialmente a cagione dell'occupazione francese per mezzo di un'armata che rimase nel paese. Il Melzi fu molte volte sospettato, ma anche contro il suo volere mantenne la carica, finché Bonaparte nel maggio 1805 si pose in capo la corona ferrea dei Lombardi.

Il Piemonte in forza del decreto 21 aprile 1801 discese al grado di provincia militare francese, per esser poi unito alla Francia. La Repubblica ligure ottenne un senato dipendente con un doge e fu nel 1805 annessa pure alla Francia. Purtroppo il resto dell'Italia rimase in uno stato di triste abbandono.

Né più dell'Italia, l'Olanda raggiunse stabilità di governo. Dal tempo della conquista francese aveva provato diverse forme di governo, ma soltanto il Direttorio di cinque membri, che la governava fin dal 1798 vi portò qualche ordine, quando nel 1799 la guerra scoppiava di nuovo, aggravando di debiti il paese e coprendo di disprezzo il suo governo.
Bonaparte imponeva poi che si votasse una nuova proposta di costituzione secondo il suo sistema. Quando di un mezzo milione di votanti vi presero parte soltanto 68.000, approfittò di questo per dichiarare il 6 ottobre i801 approvata la costituzione e per aggravare inoltre quel paese senza difesa col pagamento di 65 milioni di fiorini.

Né la quiete durò poi a lungo, poiché le ristrettezze finanziarie portarono a gravi imposte e la rottura della pace di Amiens cacciò il popolo nelle agitazioni di una guerra. A lato della guarnigione francese dovette fornire un proprio esercito terrestre,10 navi da guerra e un gran numero di navi da trasporto. Inutilmente il governo cercò di sottrarsi a questa imposizione; non fece altro che render più stretta l'unione con la Francia. Per Bonaparte l'Olanda non era altro che un «deposito alluvionale dei fiumi francesi».

Al pari di tutti gli altri anche la Svizzera era malcontenta del contegno del primo console, mentre questi dal canto suo ne apprezzava grandemente l'importanza strategica. Vennero per lui a proposito i disordini interni della Confederazione, da lui sfruttati abilmente per condurre al potere, grazie a un colpo di stato a Berna l'8 gennaio 1800, una minoranza di repubblicani più moderati. Appoggiandosi su questa ottenne l'approvazione della costituzione della Malmaison. Questa divideva il paese in 17 cantoni, indipendenti per quando era possibile, sopra i quali stavano due consigli e un landamanno.
Poteva passare per la migliore costituzione possibile nelle circostanze del momento, ma fu combattuta dalla forte rappresentanza popolare d'idee democratiche. Il 28 ottobre 1801 avvenne a Berna a un nuovo colpo di stato e a un'aperta guerra civile.

Forse voluta dallo stesso Bonaparte; che inviò poi truppe nel paese e pubblicò una nuova costituzione, l'«atto di mediazione», sottoscritto a Parigi il 19 febbraio 1803. Per esso nel luogo della repubblica elvetica indivisibile venne uno Stato federale di 19 cantoni, tutti autonomi e con uguali diritti, sotto la direzione di un'assemblea nazionale e di un landamanno.
Per la Svizzera questo atto fu benefico, ma essendovi impossibile una politica autonoma, il paese divenne dipendente dalla Francia. Un nuovo trattato d'alleanza, una convenzione militare e l'annessione del Vallese con la strada del Sempione fecero il resto. Bonaparte aveva ormai in sua mano i punti strategici più importanti.

E senza tanti scrupoli fu il modo di procedere del primo console verso la Germania. Seppe egli giovarsi in modo magistrale per i suoi scopi del trattato con la Russia, della gelosia tra l'Austria e la Prussia e delle condizioni interne caotiche del paese.
Si trattava all'inizio di accordare un'indennità ai principi, che avevano sofferto perdite di territori sulla riva sinistra del Reno e per questo si era in dubbio se il risarcimento dovesse consistere soltanto in un accomodamento equivalente o se dovesse avvenire un pieno incameramento dei beni ecclesiastici. Si venne a vivaci discussioni: quale figlio della Rivoluzione, Napoleone era per una secolarizzazione nel senso più ampio della parola, con la mira nascosta di respingere con questo l'Austria dal Reno, a favore di Stati medi più deboli e perciò più propensi alla Francia.

Nella capitale francese furono trattate queste cose, quasi in modo anche più indegno che al tempo delle trattative di Rastatt. Molti opportunisti principi tedeschi vi accorsero e fecero del Bonaparte l'arbitro di fatto della loro patria. La proposta francese di questa indennità fu presentata alla dieta di Ratisbona, che l'approvò il 25 febbraio 1803.
L'accordo é noto col nome di «recesso principale della deputazione dell'Impero». In forza di esso la sesta parte del territorio germanico con 4 milioni di abitanti fu distribuita tra principi temporali medi e grandi.
L'Austria ottenne i vescovadi di Bressanone e di Trento, la Baviera 900.000 abitanti in cambio di 700.000, il Baden 237.000 quasi per nulla; la Prussia poi ebbe la parte del leone, 500.000 in cambio di 125.000. Delle molte città imperiali ne rimasero soltanto sei: Amburgo, Brema, Lubecca, Francoforte sul Meno, Norimberga ed Augusta, degli stati ecclesiastici tre soltanto: l'Ordine Teutonico; quello di S. Giovanni e l'elettorato di Magonza trasferito però altrove. Quest'ultimo si salvò a causa del suo elettore Carlo di Dalberg, uomo d'ingegno, ma debole, che Napoleone aveva scelto per valersene per i suoi ulteriori piani.

Il detto sopra "recesso principale della deputazione dell'Impero" comportava un stravolgimento maggiore di quelli prodotti dalla Riforma e dalla pace di Vesfalia. La Germania medioevale con i suoi stati ecclesiastici, le sue città imperiali, la sua nobiltà imperiale e la dominanza degli Asburgo era finita. Se fino a quel tempo i cattolici avevano avuto la prevalenza nella dieta di Radisbona, ne prendevano allora il posto gli evangelici. I risultati principali furono l'indebolimento dell'Austria e del cattolicesimo, la semplificazione della vita politica complessiva e il rafforzamento della Prussia.

Spostata prima verso oriente in seguito agli acquisti fatti in Polonia, la Prussia era ricondotta più nel centro della Germania settentrionale per l'acquisto di antichi paesi schiettamente tedeschi nella Vesfalia. Tutto questo cedeva però dinanzi all'immensa estensione dell'influenza francese. Tuttavia il destino aveva decretato che anch'essa conducesse al rafforzamento dello sviluppo nazionale tedesco. Bonaparte voleva il male e procacciava il bene.

Nella corte di Vienna si era furibondi per questa ingerenza francese, ma non si aveva la forza di opporsi, e si gettava la colpa principale sulla malvagia Prussia. Diverso era il caso a Londra. Sull'isola d'Albione s'inalberava tutto l'orgoglio della vecchia Inghilterra. Per dieci anni questa aveva vinto ed ora dovunque si vedeva danneggiata e ricacciata indietro da questo Corso, da questo uomo nuovo, come se essa non esistesse.

Anche oltre il mare guadagnavano terreno i piani del Bonaparte. Nelle Indie occidentali cercava di riconquistare S. Domingo insorta e con lo stesso ardore agiva per le rimanenti colonie. Si doveva colonizzare il Madagascar, rendere produttivi i territori francesi del Mississippi; anche l'Egitto non gli pareva ancora del tutto perduto. Per dare corpo alle sue idee aumentava la flotta da guerra e quella mercantile, accresceva il bilancio della marina di molti milioni. E questo coincideva con un impulso nuovo preso dalle industrie francesi e con un'estensione vertiginosa dello smercio dei prodotti francesi sul Continente.

L'Inghilterra aveva sperato dalla pace di Amiens dei vantaggi e specialmente un trattato di commercio con la Francia. Invece (salvo qualche privato che faceva ugualmente grossi affari con i francesi) perdeva nella pace quello, che aveva acquistato nella guerra, ed anche l'Annover pareva minacciato.

Il rancore cresceva in modo visibile; l'opinione pubblica trovò un'espressione nella stampa e fu aizzata dagli emigrati in Inghilterra stabilitisi. Invano Bonaparte chiese che gli fossero consegnati, invano chiese la restituzione di Malta; l'Inghilterra alle sue lagnanze rispose con altre lagnanze. Il tono della stampa divenne nei due paesi sempre più ostile; Bonaparte dichiarò che aveva pronto mezzo milione di soldati per la guerra contro l'Inghilterra e dette ordini, che accennavano ad uno sbarco sulle coste britanniche.

Anche l'Inghilterra cominciò ad armarsi e il 26 aprile presentò un ultimatum ed avendo il primo console risposto con un rifiuto, il 16 maggio 1803 dichiarò la guerra. La profonda eccitazione aveva spazzato via il ministero Addington e Pitt, il rappresentante delle idee bellicose, fu posto di nuovo a capo del governo.

Si trattava di una lotta di vita o morte. Una lunga lotta, che durerà tredici anni, scuotendo tutta l'Europa, finché il potente sovrano della Senna fu fatto precipitare dal trono e con tanto livore nei suoi confronti - per rimuovere la tanta paura che quell'uomo suscitava - fu scaraventato in esilio su una piccola isola in mezzo all'Oceano.

Ma di questo avremo tempo per parlarne
torniamo invece a questo momento felice vissuto dalla Francia.

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