-------------------------------------- STORIA UNIVERSALE --------------------------------------

110 h - NASCITA STATI DEL SUD AMERICA

DAL COLONIALISMO ALLE 100 RIVOLUZIONI "REPUBBLICANE"

Come abbiamo visto nelle prime pagine in "Scoperte Geografiche", colonizzata da Spagnoli e Portoghesi, l'America Meridionale fu per lunghi secoli una grande colonia europea; solo all'inizio del secolo XX incominciarono le varie rivoluzioni, che dovevano portare alla costituzione di parecchie repubbliche indipendenti. Nulla restò agli antichi conquistatori spagnoli e portoghesi; anzi nel detto inizio secolo alcuni possedimenti (ma per lo più solo isole) in questa parte dell'America sono rimasti inglesi, Francesi, Olandesi, Statunitensi. Ed è curioso che gran parte della popolazione pur essendo immigrati di Paesi latini e in buona parte di italiani non hanno mai sviluppato quel tipo di nazione "democratica" come i Sassoni nell'America del Nord. Forse anche perchè sia i discendenti degli antichi coloni spagnoli e portoghesi come le molto più tarde ondate immigratorie di italiani erano legati al mondo cattolico, dove l'intraprendenza e lo spirito d'impresa sono sempre stati viste come conquiste relativistiche, quindi opera del diavolo. "Con queste cose van dispersi li puri sentimenti delli omini". Dicevano.
E quanto ai libri di Locke o di Montesquieu (ancora all'indice dei libri proibiti nel 1939 !!!! ), erano ".... sti libracci perniciosi rovina li menti delli giovini, che poi pretendon di fare scienza, anzi dicon d'esser quelli tomi scienza; al foco tutti quanti, li scrittori, li lettori e li libri".
De resto abbiamo visto cosa pensava Vincenzo Gioberti nella cattolica Italia, con le sue tesi contro le aspirazioni "rivoluzionarie" dei democratici nel nord america !! chiamata "plebe", detta anche "Branco di pecore" senza il "Principe divino".

"La mera democrazia - questo indicibile bamboleggiare degli scrittori, in Inghilterra (Locke ecc.) in Francia (Montesquieu), , nell'America boreale dei dì nostri, che adorano le moltitudini, esaltano il principio di associazione, invocano e celebrano l'alleanza dei popoli - tale è la piaga principale, vezzo prediletto del secolo) ... non può sussistere, nè può durare, perchè radicalmente inorganica...Il numero accresce la forza, ma non la crea... Un branco di pecore innumerabili è sempre men capace e men valido del mandriano...Mentre il diritto del Principe è divino, poichè risale a quella sovranità primitiva onde venne organato ed istituito il popolo di cui regge le sorti...La sovranità si riceve, ma non si fa e non si piglia...Ella importa la sudditanza, come un necessario correlativo; e il dire che il sovrano possa essere creato dai suoi soggetti (con il suffragio Ndr) e trarne i diritti che lo previlegiano, inchiude contraddizione. Insomma, il sovrano è autonomo rispetto ai sudditi, e se ricevesse da loro l'autorità sua, non sarebbe veramente sovrano, perchè i suoi titoli ripugnerebbero alla sua origine... I sudditi dipendono dal sovrano, e non viceversa...L'obbligazione verso il sovrano deve dunque essere assoluta, altrimenti la sovranità è nulla..."La potestà è ordinata, e da Dio procede" a ciò allude l'Apostolo (Paul. ad rom., XII,1,2).
Sapete donde nasce il più grave pericolo? Dal predominio della plebe, la quale promette una seconda barbarie più profonda di quella dei Vandali e degli Unni e un dispotismo più duro del napoleonico. Guai alla civiltà nostra se la moltitudine prevalesse negli Stati".
(V. Gioberti, Studio della filosofia, cap. Della politica, vol III, Tipografia elvetica, Capolago 1849 - che abbiamo in originale). (Nel '43 Gioberti aveva già scritto "Del primato morale e civile degli italiani") .

L' America del Nord ebbe il "predominio della plebe",
quella del Sud il predominio del "Principe divino"!
La prima, l'abbiamo vista nelle precedenti pagine, fece la differenza.

Il Settecento fu il secolo dell'indipendenza del Nord-America inglese, con l'epica lotta che portò alla formazione degli Stati Uniti, il Paese-guida.
Tra il 1808 e il 1830 circa, ci fu una reazione a catena di rivoluzioni e di dichiarazioni d'indipendenza anche nelle ex colonie spagnole e portoghesi del Centro e del Sud-America, desiderando avviarsi per la stessa strada, ma purtroppo incontrò però delle remore, derivanti quasi sempre dalla pesante eredità coloniale del passato e che non è mai riuscita a togliersi dalle spalle.
Spagna e Portogallo governarono le loro colonie da dominatori, impedendo il sorgere di una attiva e colta classe media, capace di guidare il Paese. Di qui - nonostante le rivoluzioni - derivarono situazioni paradossali: pur ricchissimo di risorse, tutti i suoi Paesi che ben presto divennero costituzionalmente democratici e repubblicani, sono poi stati incapaci (tranne qualche eccezione) di trovare governi stabili, duraturi, sinceramente democratici.

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Ripercorriamo la genesi di questa metà del Nuovo Continente.

Intorno alla metà del secolo XVI la Spagna elevò la pretesa che fosse soggetto al suo dominio l'intero continente americano insieme con tutte le sue isole, eccettuata soltanto la punta orientale dell'America del Sud, che, per il trattato di divisione del 1494, era toccata ai Portoghesi.


Ciò nondimeno, la sua signoria non venne esercitata realmente dappertutto. Si trascurarono, per il momento e si lasciarono indisturbati gli esperimenti coloniali dei Portoghesi, degl'Inglesi e dei Francesi, in quanto essi non toccavano il possesso reale degli Spagnoli.
Ma come la questione giuridica fosse considerata in Spagna é mostrato dalla spietata severità, onde, nel 1564, fu represso il tentativo di fondare una colonia francese ugonotta nella Florida; la Francia fu costretta a tollerare che cento dei suoi sudditi, considerati illegali intrusi, fossero giustiziati come pirati, perché avevano osato fare una incursione in territorio spagnolo sull'allora ancora spopolata costa della Florida.

Ciononostante, anche in seguito, l'intero continente nordico fu quasi del tutto trascurato dalla Spagna. Solamente nel nord-ovest più missionari spagnoli che funzionari governativi si spinsero fino al Colorado e nella regione di Pueblo; mentre nella Florida - sotto questo nome si intendeva allora tutto il territorio, che va dai confini del Nuovo Messico fino alle coste dell'Atlantico - il dominio spagnolo fu sempre nominale e rimase limitato a pochi punti delle coste.
Per i fini amministrativi questo ampio dominio coloniale era diviso in due importanti vicereami - Messico e Perù - e in circa trenta altri governatorati fra più grandi e più piccoli, compresi sotto differenti nomi.

Con l'andar del tempo vennero elevati a vicereami, oltre questi, anche Nuova Granata (1739), e Buenos Aires (1776), ai quali furono aggregati i territori vicini; per altro si evitarono, per quanto fu possibile, importanti modificazioni nelle divisioni. Nel primo tempo era stato considerato come il centro di tutto il dominio San Domingo, nell'Isola Hispaniola, dove aveva sede il più alto tribunale delle colonie, la « audiencia », e donde si dirigevano tutti gli affari coloniali.

Solo per la via di San Domingo governatori e coloni potevano aver rapporti con la patria, dove la « casa de contratacion » di Siviglia, fondata fin dall'inizio, quale autorità vigilatrice del commercio coloniale, ma ben presto dotata di un ufficio coloniale con poteri amministrativi e giuridici, ottenne un vero e proprio monopolio. Al di sopra di ambedue stava, come tribunale di appello e autorità direttiva, il «Consiglio delle Indie», che seguiva sempre la corte: più tardi, resosi necessario un aumento dei tribunali, sorsero, una dopo l'altra, non meno di nove « audiencias », sebbene quella di San Domingo conservasse fino al secolo XVIII un vero predominio, che si fondava sul suo collegamento con le comunicazioni coloniali, poiché fra San Domingo e le foci del Guadalquivir - Siviglia, San Lucar e Cadice - si concentrò, per secoli, l'intero traffico, svolgentesi fra la madre patria e tutti i suoi possessi transoceanici.

Con accuratezza non minore si pensò all'amministrazione ecclesiastica. I primi vescovati in Hispaniola furono eretti nel 1512. Quanto più progrediva l'ordinamento del territorio, tanto più si estendeva la rete delle diocesi con un numero corrispondente di arcivescovadi e di vescovadi alla testa. Più che colonizzatori, l'invasione fu un esercito di preti, che per prima cosa invece di costruire opifici, innalzarono una selva di cattedrali, chiese, cappelle.

Cosicchè la massima che subordinava immediatamente tutte le colonie, come un gigantesco demanio, alla corona di Castiglia trionfò anche nel terreno ecclesiastico: anche se il Re esercitava il diritto di patronato su tutti i benefici ecclesiastici coloniali, e ne nominava i titolari, libero da ogni estranea intromissione.
Il tratto più notevole dell'amministrazione coloniale spagnola é il suo atteggiamento verso gli indigeni. Colombo, dietro l'esempio del Portogallo, l'unica potenza, che, prima degli Spagnoli, avesse posseduto colonie, aveva, nel 1495, imbarcato sulle sue navi un gran numero d'indiani per renderli schiavi in Spagna.

Ma già allora fu, come principio, deciso che gli indigeni dovessero considerarsi sudditi liberi, sebbene poi nella pratica questa massima abbia dovuto, subito dopo sottostare a qualche modifica.
Così fino al 1531 la schiavitù degli Indiani ostili (ed ovviamente erano tutti ostili davanti a chi si comportava da padroni nelle loro terre) fu ammessa come un diritto. Infatti gli indigeni erano sì liberi ma erano tenuti a convertirsi e incivilirsi, e che voleva dire - con le buone o con le cattive - mettersi "sotto" (nel vero senso del termine) la protezione dei coloni europei.
Con tali « repartimientos » (ripartizioni) ed « encomiendas » (protettorati) si volevano ricompensare i servizi dei "coloni" (i padroni, beneficiari), segnalatisi nel dischiudere alla civiltà nuovi territori.

Ma quanto più si sollevarono lagnanze che i protetti erano più sfruttati che difesi dai loro patroni-padroni, tanto più severe divennero le leggi promulgate per il meglio degli indigeni, tanto più si limitarono le « ecomiendas », tanto più esclusivamente fu lasciata la cura dell'incivilimento degli indigeni agli ecclesiastici, che con le loro missioni portarono l'influsso spagnolo fino nei più remoti angoli dell'impero coloniale.
Bisogna tuttavia dire che la legislazione della Spagna, relativa agli indigeni, fu la più mite, che mai sia stata promulgata: quindi, rispetto alle accuse circa il maltrattamento degli indigeni, non possono incolparsi le leggi, sebbene le persone e le condizioni dei coloni-padroni-patroni, le quali erano sì molto difficili, ma perchè erano loro a esercitare in modo brutale la sottomissione e le stesse conversioni. Se nell'800 li consideravano ancora "figli di un putrido tronco" , "animali" , figuriamoci al loro primo sbarco!

La speranza di incontrare sulle coste orientali dell'Asia nazioni molto civili, con cui fosse possibile esercitare un commercio lucroso, non si era, con la scoperta di Colombo, avverata. I prodotti, propri delle colonie del Nuovo Mondo, offrivano all'inizio poche speranze di risarcire le spese sostenute. Solo la coltivazione delle canne da zucchero, trapiantate con altre culture europee, nel nuovo mondo, parve rimunerativa, mentre, d'altra parte, gli indigeni si rivelarono inadatti a questa sorta di lavori di sfruttamento agricolo.
Ancora nell'800, Marmocchi nele sua grande opera geografica del pianeta, nel parlare di popolazioni indiane, negre, aborigeni così si esprimeva:
"Autorevoli pubblicazioni scientifiche stabiliscono che vi è un legame fisico e intellettuale fra le razze inferiori del pianeta (ottentoti, boscimani, negri, pellirossa, ecc.) e le scimmie antropoidi. Che quelli sono e saranno sempre animali! "Molti dotti dicon che son al primo stato dell'uomo antico e naturale: La prima opinione è un errore, la seconda è sentimentalismo, non regge al raziocinio: sono figli di un putrido tronco... E' sentenza ormai degli universali fisiologi e degli uomini di scienza che quegli uomini hanno per natura nessun intelletto. Padre Gregorie (un missionario Ndr.) sperava prodigi in una sviscerata sensibilità, ma ahimè, l'esperienza non corrisponde al suo desiderio, quella sua speranza è pura follia. Con quegli più nulla s'ha da fare, solo mettergli le catene al collo e alle caviglie!"
(Marmocchi "Geografia Universale, Storia dell'Umanità", pag. 312, 3° volume ).

Le idee, favorevoli alla loro utilizzo, che ancora nel 1520 furono, con particolare zelo, sostenute da Bartolomeo de las Casas, condussero perciò all'introduzione della schiavitù dei Negri e Indios, che, esercitata per secoli su larga scala, formò, fino alla guerra di secessione, una caratteristica dell'economia coloniale americana.

La prima autorizzazione a vendere schiavi per l'America fu rilasciata da Ferdinando "il cattolico" re di Spagna. Dopo il primo "carico" di "merce" con 250 negros fatto nel 1511, alla fine del 1600 erano già 1.000.000, nel 1650, 7.000.000, nel 1750, 17.000.000.

Una importanza economica, del tutto nuova, acquistarono le colonie per la madrepatria, quando vennero scoperti i loro tesori mineralogici. Certo qualche po' d'oro già aveva trovato Colombo presso gli isolani; e in vari luoghi, si era, di buon'ora, incominciato a frugare nella sabbia dei fiumi, ma il profitto, ricavato dai metalli nobili, fu veramente notevole soltanto quando vennero scoperte le miniere argentifere del Messico, Sultepezne, Guanajato, e del Perù - Potosi, e, mediante l'invenzione del processo di amalgamazione, furono agevolmente sfruttabili.

Prescindendo dal ricco bottino, che nella conquista del territorio era caduto nelle mani degli Spagnoli, si dischiuse qui una sorgente di ricchezza duratura, quale non possedeva nessun'altra Nazione della terra. Oro e argento e anche, per un certo tempo, perle delle coste nordiche dell'America meridionale e smeraldi delle cave di Nuova Granata affluirono, da allora in poi, in tale quantità in Spagna da portare un completo rivolgimento, non compreso dai contemporanei, di tutti i rapporti dei valori.
Mano mano che le colonie si trasformavano in un lucroso possedimento, il traffico coloniale naturalmente correva sempre più il pericolo di venire insidiato dai nemici della Spagna.

Già durante le guerre, che Carlo V ebbe a combattere con la Francia, venne impartito l'ordine che i bastimenti delle Indie occidentali fossero armati per resistere contro assalti pirateschi: inoltre essi, in tempo di guerra, dovevano intraprendere la traversata non isolati, ma uniti in flotte.
Oltre a questo si radicò l'uso che tutto il traffico fra la madrepatria e le colonie si attuasse solo mediante le flotte e i galeoni, che, due volte l'anno, andavano e venivano. Queste navi, nel marzo e nel settembre, salpavano da Siviglia e da Cadice; navigavano insieme fino a Santo Domingo, dove si dividevano nella flotta della Nuova Spagna, che veleggiava per Vera Cruz, e la flotta del continente, la meta della quale era Portobelo.

In questa piazza, avveniva, dopo l'arrivo della flotta, una fiera di quaranta giorni, alla quale affluivano i negozianti dell'intera America meridionale per barattare con i prodotti delle colonie gli articoli europei d'uso comune. Perfino le regioni del Rio de la Plata dovevano fornirsi, per lungo tempo, attraverso questa via, poiché la Spagna rifuggiva dall'aprire al traffico le foci del fiume, per il timore che l'incertezza della frontiera politica rispetto al Portogallo, che a tempo opportuno si era impadronito della riva sinistra del Rio de la Plata, rendesse del tutto impossibile contrastare l'illegale traffico di contrabbando.
Così le merci, dirette ad Asuncion e a Buenos Aires, dovevano prima attraversare l'istmo di Panamà, per trovare, muovendo da Callao, di nuovo sopra il dorso della Cordigliera, la loro via verso le acque, scendenti ad oriente, le quali, finalmente, le portavano a destinazione.

Solo nel 1778 il repentino cambiamento della politica coloniale spagnola tolse di mezzo queste pesanti restrizioni del traffico. Dopo la fine della fiera di Portobelo, la flotta del continente ritornava all'Avana, dove la flotta della Nuova Spagna l'aspettava. Allora affidati i tesori dei metalli nobili, formanti un elemento principale delle rimesse coloniali, alle navi maggiori e migliori, l'intera squadra riunita, iniziava, attraverso il canale delle Bahama, il viaggio, che doveva esser diretto con particolare previdenza, poiché principalmente alla «flotta dell'argento », rimpatriante, miravano gli agguati dei nemici; i quali, al momento buono, tornavano sempre ad infliggere gravi danni agli Spagnoli, quantunque si usasse ogni precauzione, e navi esploratrici corressero attorno alla squadra e una flotta di protezione le muovesse incontro da Siviglia fino al di là dalle Azzorre.

I nemici della Spagna cercavano di turbarne il traffico, e, con l'andare del tempo, compievano attacchi ostili anche alle colonie stesse. Da principio le colonie spagnole, nella coscienza della loro piena sicurezza, erano state fondate quali piazze aperte, nei punti più accessibili della costa, e possedevano una fortificazione, tutt'al più, dal lato di terra contro assalti improvvisi degli Indiani. Ma, dopo che, dal 1542, prima i Francesi, poi gli Inglesi avevano assalito e saccheggiato un gran numero di piazze costiere aperte, tutte le località più importanti vennero fortificate o trasferite, così lontane dalla spiaggia da esser sottratte ad un colpo di mano dei nemici.

Con tutto ciò, la mancanza di sicurezza delle acque americane rimase grande, durante l'intero secolo XVII. Quanto più il centro di gravità dell'impero coloniale spagnolo si spostava verso la terraferma, dove Messico, Cartagena, Santa Fé de Bogotà, Quito e Lima formavano i nuclei di una vita e di una vivace attività spirituale, sociale e commerciale, tanto più il mondo insulare delle Antille perdeva la propria importanza, agli occhi delle autorità indigene e coloniali.
Le isole più piccole erano state sgombrate dagli Spagnoli, quasi immediatamente dopo la scoperta: ma anche nelle maggiori l'occupazione spagnola si restringeva a pochi tratti, prescelti per fini amministrativi.

Così accadeva che i banditi, i quali proseguivano la lotta contro la ricchezza coloniale spagnola, anche quando la situazione politica non permetteva più loro il pretesto di esercitare l'opera piratesca sotto la bandiera di qualsiasi aperto nemico della Spagna, potevano non solo stabilirsi nelle più remote isolette dell'arcipelago, ma anche approfittare, sulle coste di Hispaniola e di Cuba, delle baie più lontane, come nascondigli.
Questi filibustieri (della cui genesi abbiamo già parlato in altri capitoli) e pirati, miscuglio di tutte le nazioni possibili e immaginabili (non tolleravano però nel loro seno alcun suddito del Re di Spagna), formavano, di tanto in tanto, un flagello per le colonie spagnole, estendendo le loro razzie alle coste del Pacifico e dell'Atlantico, e funestando con le loro sorprese perfino delle città, che si trovavano lontane molte miglia dal mare.
Solo quando la Spagna decise di cedere ai propri nemici, le isole occupate da essi, costoro ebbero interesse a toglier di mezzo la pirateria, e la razza dei filibustieri perdé la sua importanza minacciosa.

Prescindendo da queste transitorie minacce esterne, le colonie spagnole vissero una vita tranquilla e regolare, poiché, spenta la generazione dei conquistatori, le soppressioni degli indigeni cessarono da sé. Soltanto una volta, quando Tupac Amaru, nel 1780, riuscì nel Perù ad attizzare nei suoi compatrioti una specie di fanatismo nazionale, la Spagna si trovò a lottare con un'insurrezione degli indigeni. Molto più spesso le dettero da fare i Negri, il numero dei quali era già, un secolo dopo la scoperta, grande, come quello dei coloni bianchi.
Nei distretti, il governo dei quali esigeva un grosso contingente di schiavi negri, questi, quando la popolazione non era ancora numerosa, si sottrassero non di rado con la fuga dai loro padroni, e, qualche volta, riunitisi nelle selve in forti bande, divennero perfino pericolosi. Nè si potevano condurre sul posto truppe necessarie per domarli.

Tuttavia col tempo, fra gli Indiani e i coloni si formarono, quasi dovunque, relazioni patriarcali, delle quali si trovarono bene ambedue le parti, quantunque una assai forte mescolanza di sangue sia avvenuta solo in alcuni luoghi. Bene si addprò il Governo a promuovere, mediante il matrimonio di principesse ereditarie e di semplici principesse indigene con conquistatori spagnoli. Con una comunanza di interessi si riconobbe per legge la nobiltà indigena così formatasi. Ma solo nella contrada di Asuncion, per mezzo di questi reciproci matrimoni per generazioni e generazioni, é poi sorta una specie di razza mista: la creola, che diede perfino origine anche a un proprio linguaggio (un miscuglio di indigeno e spagnolo).

In generale, gli Spagnoli hanno senpre portato con sè, anche nel nuovo mondo, l'orgoglio del sangue puro, orgoglio che nel XVI secolo era divenuto nella madre patria fortissimo. In quegli anni del resto essi erano al centro dell'universo.
In antitesi alla popolazione, di quando in quando, fluttuante, degli impiegati, dei mercanti e dei cavalieri di industria si formava in tutte le province coloniali una schiatta di famiglie sedentarie tenendosi rigidamente separate dagli indigeni e dagli stessi creoli, che si sentivano, però, per i possessi e per l'esperienza, superiori ai nuovi arrivati, i chapetones.

L'aristocrazia proprietaria creola non fu per nulla favorita dalla Spagna, che parve piuttosto ne considerasse con diffidenza l'innegabile efficacia. Nell'amministrazione, in ogni caso, i creoli furono da per tutto subordinati agli Spagnoli, cosicché fra le sfere officiali del Governo e la nobiltà campagnola indigena dei creoli di pura razza ispanica si acuì sempre più, in tutte le province, un contrasto segreto, ma non perciò meno aspro.

Sotto questo rispetto anche il mutamento, che avvenne nel XVIII secolo nella politica coloniale, non apportò nessuna modifica. Durante la guerra di successione spagnola, le colonie s'erano mantenute del tutto passive, e avevano accolto, senza indugio, il mutamento di dinastia, come era stato deciso in Spagna.
All'inizio anche i Borboni spagnoli non estesero i loro tentativi riformatori al di là dell'Oceano, e quando incominciarono a ricordarsi delle colonie vi apportarono innovazioni molto modeste. Il porto di Siviglia era stato sempre inadatto per le
navi più grosse; ora, essendosi nel secolo XVII abbandonato il tipo delle piccole navi del 500, l'emporio delle Indie fu, per un riguardo di opportunità, trasportato nel 1715 a Cadice, che col suo ampio porto offriva un ancoraggio sicuro alle maggiori flotte.

Finalmente anche il Governo reputò un male che le notizie giungessero così rade e irregolari dalle colonie, come era voluto dal movimento delle flotte. A riforme più radicali però si sforzò di procedere il Governo di Carlo III: nel 1774, alla fine, si abolirono le restrizioni doganali, che fino allora avevano separato fra loro le province coloniali; nel 1778 fu regolato il traffico fra la madre patria e le colonie su nuove basi, e, nel 1784, si introdussero comunicazioni postali mensili fra Santo Domingo e la Corona. Naturalmente il rigido isolamento delle colonie riguardo al commercio straniero non s'era mai potuto mantenere, data l'enorme estensione delle coste.

Era generalmente noto che navi mercantili straniere esercitavano con i possedimenti spagnoli un vasto contrabbando, che si poteva tanto più difficilmente impedire, in quanto Inglesi, Francesi, ed Olandesi avevano accanto ai Portoghesi acquistato possessi coloniali in America ed erano diventati scomodi vicini degli Spagnoli.
Quando nella pace di Utrecht (1713) la Spagna dovette concedere agli Inglesi il monopolio della tratta dei Negri, il commercio dell'Inghilterra conseguì una condizione privilegiata, giacché vi fu aggiunta la facoltà di inviare regolarmente nei porti coloniali, insieme con le navi cariche di schiavi, anche due piccoli bastimenti con altri articoli commerciali.

Da quel momento avendo il traffico illegale degli Inglesi assunto tale estensione da rendere quasi illusorie le leggi, miranti alla chiusura dei mercati coloniali, Carlo III risolvette di abolirle, almeno in parte. Il libero traffico con gli stranieri fu allora permesso solo provvisoriamente, come un fatto eccezionale, quando le vicende di guerra della madre patria troncarono il commercio transoceanico.
All'incontro l'emporio delle Indie fu soppresso, e 9 piazze della metropoli e non meno di 22 porti delle colonie ottennero il permesso di scambiarsi, a piacimento, le merci. Da questo provvedimento trasse il maggior vantaggio Buenos Aires, resa al tempo stesso sede di un vicerè, mentre le fiere di Portobelo scomparvero del tutto.

Ormai la foce del Rio della Plata, con i suoi porti eccellenti, esercitò, per tutta l'America meridionale, quella funzione, che aveva avuto nel Nord San Domingo. Qui sostavano tutte le navi, che muovevano dalla Spagna per le province a sud dell'Ecuador; di lì ormai erano forniti di generi europei, per la via attorno al capo Horn anche il Cile, e il Perù in condizioni, di gran lunga, più propizie di prima.

Con tutto ciò, la foce del La Plata rimase per l'amministrazione coloniale spagnola un oggetto di inquietudine, poiché quello era l'unico luogo più importante, dove la Spagna, fin dall'inizio, aveva dovuto tollerare un confinante accanto a sé, dato che il casuale approdo del Cabrai, nel suo viaggio verso le Indie orientali, aveva, nel 1499 rivelato che la punta orientale dell'America meridionale s'estendeva per un ampio tratto nella sfera coloniale assegnata al Portogallo.
Non essendo, fin da principio, rimasti indiscussi i diritti degli scopritori spagnoli sulla foce del Rio della Plata, dei coloni portoghesi avevano fondato sulla riva sinistra del fiume parecchi stabilimenti, quantunque il Portogallo si fosse pochissimo curato della sua colonia brasiliana, prima abbandonata allo sfruttamento privato, poi nel 1535 invano divisa in distretti feudali.

Allorché, in seguito, sorsero in vari luoghi, per opera esclusiva dei coloni, fiorenti comunità, si adottò il sistema delle colonie della Corona, secondo il modello ispanico, rimanendo fedeli, solo nel trattamento degl'indigeni, alle antiche consuetudini, che ne tolleravano la schiavitù. Le scorrerie dei cacciatori di schiavi di San Paulo, che battevano per largo e per lungo il territorio spagnolo, avevano portato a difficoltà diplomatiche, ma la congiunzione del Portogallo alla Spagna aveva anche qui operato beneficamente, e agevolato la fine dei conflitti di frontiera; ciò che portò speciali conseguenze.

Per garantire allo stesso modo gl'indigeni contro le oppressioni di Spagnoli e di Portoghesi, avendo Filippo III, nel 1609, dato il permesso ai gesuiti che, come missionari nel Brasile, erano stati attivissimi, di pigliare su di sé l'incarico esclusivo della conversione e dell'incivilimento degli indigeni nel malsicuro territorio di frontiera sull'alto Paraguay, ed Uruguay, costoro riuscirono a fondarvi, in breve tempo, numerose colonie floride, ben popolate, la ricchezza delle quali, realmente considerevole, fu esagerata, essendo vietata ogni intromissione e vigilanza alle autorità secolari.

Quando, dopo il distacco del Portogallo, fu minacciata la pace delle colonie, i missionari ottennero per i loro protetti perfino il diritto di portare armi da fuoco, il che era proibito a tutti gl'indigeni; e gli eserciti delle missioni si batterono egregiamente nella guerra di frontiera. Però allorché nel 1750 si giunse fra la Spagna e il Portogallo a un definitivo accomodamento sulla frontiera coloniale, la risa sinistra dell'Uruguay, su cui si trovavano sette grandi stabilimenti delle missioni, venne, abbandonata ai Brasiliani, fissandosi nel trattato che i gesuiti dovessero, insieme con i loro allievi, trapiantarsi su territorio spagnolo.

Ma gli Indiani non intendevano farlo, e i consiglieri spirituali non poterono o non vollero impedire che costoro si opponessero con le armi all'ordine d'emigrare. Così, spalancate le porte ai calunniatori, che avevano seguito lo sviluppo dello Stato della missione del Paraguay con occhi malevoli, i gesuiti furono incolpati di trame d'alto tradimento, e quando, circa in quel periodo, l'Ordine fu sciolto dal papa, anche i missionari ricevettero l'ordine di abbandonare immediatamente le sedi della loro lunga e benefica attività, imbarcandosi per l'Europa.

In tal modo, avendo avuto l'organismo tutto speciale di questo Stato della missione immediata fine, andarono con esso perduti anche l'ordine e la stabilità nelle colonie degl'Indiani, e ben presto gl'indigeni abbandonati a sé stessi ricaddero in uno stato semiselvaggio.
Nell'ultimo terzo del secolo XVIII la Spagna seguì una politica, che in determinate contingenze, avrebbe potuto divenire proprio fatale per i suoi possessi coloniali.
Il borbonico patto di famiglia, concluso nel 1761, la obbligò ad uno stretto accordo con la vicina Francia, e perciò la trascinò in un contrasto sempre più acuto con l'Inghilterra, diventata frattanto aultrapotente sul mare. Le colonie spagnole l'ebbero a provare più volte, poiché le loro estese coste offrirono agli Inglesi, in ogni tempo, comodi punti d'assalto. In questa maniera, nel 1763, la Florida andò perduta; e si rinunziò del tutto nel 1795 a Hispaniola.

Così del primo paese, che Colombo aveva colonizzato per la Spagna, questa non salvò che le ossa dello scopritore, trasportandole all'Avana. Ma l'esperimento più pericoloso, in cui la politica francese coinvolse il Governo spagnolo, fu l'aiuto alle colonie della Nuova Inghilterra, nella loro lotta per l'indipendenza, quantunque la Spagna facesse, appositamente, una parte secondaria per evitare nei suoi possedimenti coloniali l'attuazione pratica di quei principi, da essa invece sostenuti nell'America nordica.

Non poté impedire però che l'Inghilterra imitasse l'esempio degli alleati tentando di suscitare difficoltà agli Spagnoli nei loro possedimenti transatlantici, sebbene da principio non ottenesse quasi nessun buon successo. Data la scarsa importanza dei punti di contatto territoriale, le colonie ispano-americane non ricavarono dalle ostilità contro l'Inghilterra che dei vantaggi, poiché la poca sicurezza delle vie marittime indusse di nuovo il Governo di Madrid a diminuire o togliere di mezzo l'isolamento delle colonie rispetto al traffico straniero.

La propaganda inglese, mirante a distaccare anche le colonie spagnole dalla madrepatria, non trovò assolutamente il terreno favorevole; il che apparve con tutta chiarezza, quando gli Inglesi tentarono di suscitare, con la forza delle armi, disegni di emancipazione nei possedimenti spagnoli.

Il patto borbonico di famiglia aveva, dopo una breve interruzione, mantenuto la Spagna alleato alla Francia, anche quando questa, attraverso la repubblica, si era trasformata in una dittatura bonapartistica: la quale aveva ereditato così l'amicizia spagnola, come il contrasto con l'Inghilterra, acuitosi tanto più, quanto più le Gran Brettagna si palesò inaccessibile all'amicizia e alla ostilità del Bonaparte.

In lega con la Francia napoleonica, la Spagna perse gli ultimi resti della sua potenza marittima nella battaglia di Trafalgar (21 ottobre 1805), mentre la stessa condizione politica indusse l' Inghilterra ad un aperto attacco alle colonie spagnole.
Buenos Aires, in contrasto, per così dire, con la vecchia politica commerciale spagnola del rigido isolamento, divenuta grande, doveva in gran parte la sua importanza all'abolizione delle vecchie limitazioni doganali, e passava per ciò, in tutta l'America spagnola, per una città, dove le idee progressive avevano trovato il maggior favore.

Siccome anche gli Inglesi avevano mantenuto dei rapporti con questo porto più che con qualunque altro, il generale Beresford, dopo che, nel 1805, ebbe occupato per l'Inghilterra il Capo di Buona Speranza, risolvette di tentare un colpo di mano anche contro Buenos Aires. Non essendo assolutamente atteso un attacco su quel punto, gl'Inglesi poterono in pochi giorni, con perdite insignificanti, impadronirsi della città e della cittadella.

Quantunque non ci fosse neppur l'ombra d'una sollevazione di seguaci delle idee di libertà, le autorità coloniali, col vicerè alla testa, non osarono contro la conquista organizzare la resistenza, la quale sorse dal seno della popolazione, mostrando così chiaramente come gl'Inglesi avessero male conosciuto lo spirito dominante nelle colonie spagnole, se credevano di potervi suscitare una guerra d'indipendenza, come quella che aveva loro strappato le colonie della Nuova Inghilterra.

Senza che la guarnigione inglese valesse a impedirlo, i patriotti, riunitisi nelle vicinanze di Buenos Aires e armatisi, effettuarono la mattina del 27 giugno 1806, sotto la condotta d'un Francese, che, quale capitano, apparteneva all'esercito coloniale spagnolo, Giacomo de Liniers, la loro congiunzione dinanzi alle porte della città, e respinsero, a furia di assalti concentrici, gl'Inglesi sempre più verso il mercato e la cittadella. Non essendosi potuto mantenere nemmeno lì, il Bersford dovette accontentarsi, alla fine, di ottenere libera uscita.

Il capitano Liniers per la liberazione della città conseguì la nomina a viceré e, come tale, ebbe occasione di rinnovare la lotta contro gli Inglesi. Infatti il Beresford, ricevuti dei rinforzi dalla madre patria, si insignorì, a poco a poco, della riva orientale del Rio de la Plata, e fece di Montevideo la base degli assalti, mediante i quali pensava di riprendere Buenos Aires.
Quantunque nel suo attacco del 12 agosto egli prendesse a modello il procedimento dei patriotti nella riconquista della città, urtò in una resistenza così risoluta ed energica che dovette, dopo gravi perdite, ritirare le sue colonne assalitrici e obbligarsi, nelle successive trattative, a sgombrare anche la riva orientale.
Così finì il tentativo dell'Inghilterra di svegliare nelle colonie spagnole tendenze favorevoli alla guerra d'indipendenza.

Chi le risvegliò, sebbene del tutto contro la sua volontà, fu il più ostinato avversario dell'Inghilterra, cioè Napoleone I. Le sue lotte contro gli assolutismi, che suscitarono nelle corti d' Europa sgomento, fu compresa a fondo dalle colonie americane, tanto che il tentativo dei Francesi di impadronirsi del Portogallo indusse il Re Giovanni VI, nel novembre 1807, a trasferire la sede del Governo a Rio Janeiro, modificando così, naturalmente, i rapporti di questa colonia con la madrepatria.

La presenza della corte dette alla vita spirituale della capitale del Brasile nuovi impulsi, mentre la colonia conseguiva, per ricompensa di aver offerto un sicuro asilo al Governo, taluni vantaggi politici. Essendo poi Giovanni VI rimasto in Rio de Janeiro, anche quando la madre patria era stata liberata definitivamente dal nemico, la colonia ottenne una straordinaria predominanza. Senza spezzare i legami con la madrepatria, il Brasile (con la restaurazione in Europa) fu, nel 1815, elevato a regno, e felicemente governato durante il movimento rivoluzionario, che danneggiò tanto le colonie, quanto gli Stati della penisola pirenaica.

All'inizio la nota rivoluzione liberale europea del 1820 suscitò anche nel Brasile la lotta per ottenere la costituzione. Ma, siccome l'erede del trono, Dom Pedro, si mise alla testa dei costituzionali, il mutamento si effettuò, un'altra volta, in forma oltremodo pacifica, essendo il Re Giovanni VI ritornato in Portogallo e avendo affidato al suo vicario, il principe ereditario Dom Pedro, l'incarico di attuare il Governo parlamentare.
Quindi il vincolo, che legava la colonia con la madrepatria, si rallentò ancor più; neppure quando Dom Pedro nel 1822 dichiarò l'indipendenza del Brasile e assume il titolo di Imperatore, fu fatto dal Portogallo alcun tentativo di opporsi a tale mutamento.

La formazione d'uno Stato autonomo, avvenuta fin dal 1808 sul suolo americano, aveva prodotto sulle colonie spagnole, vissute fino allora nelle stesse condizioni del Brasile, un'impressione del tutto diversa rispetto ai violenti sforzi dell'Inghilterra di favorire il distacco delle colonie.
Ma l'evoluzione politica della madrepatria fu la causa principale, che produsse una certa agitazione nelle colonie spagnole, dove la rimozione dei Borboni, mediante la commedia dell'abdicazione di Baiona, fu nota poco prima della sollevazione di Madrid del 2 maggio 1808, a cui, dopo pochi mesi, seguì la notizia della vittoria di Baylen.

Di là dall'Oceano non avevano modo di giudicare con esattezza le forze, che nella Spagna stavano a contrasto. L'istituzione d'un Governo provvisorio, le frasi altisonanti, con cui esso e le innumerevoli giunte locali chiamavano il popolo alla riscossa contro la dominazione straniera, dovevano tanto più agevolmente ingannare le colonie intorno alla condizione disperata del Governo nazionale, in quanto i Napoleonidi, da prima, non si trovavano davvero in grado di far valere nella pratica le loro pretese sull'impero coloniale ispanico.

Così avvenne che alla notizia dell'imprigionamento di Ferdinando VII e della salita al trono di Giuseppe Bonaparte le colonie tutte, senz'eccezione, risposero col ricusare obbedienza al Governo ufficiale del Bonaparte, e col formare anch'esse, sino alla restaurazione del legittimo sovrano, assemblee locali e giunte, che provvisoriamente s'incaricarono delle funzioni amministrative.
Nelle maggior parte delle province dell'America meridionale già nel corso dell'anno 1809 si abolì transitoriamente il potere dei governatori locali, che si resero, in qualche modo sospetti di voler riconoscere di fatto come legittimo il Governo della madre patria.

Dove poi, come in Caracas, si arrivò a istituire una repubblica, il Re Ferdinando VII ne avrebbe dovuto essere il Presidente ereditario. L'esempio del Brasile fece, anche nelle colonie ispaniche, apparire a un gran numero di uomini politici la cosa più desiderabile di tutte la formazione, sul suolo americano, di una o di più secondogeniture spagnole.
Delle trattative su questo punto s'intavolarono da principio con la mediazione della corte portoghese, e, dopo il ritorno di Ferdinando VII, si proseguirono per lunghi anni direttamente in Madrid, sebbene le nuove correnti politiche, formatesi nell'America e lo spirito contrario ad ogni concessione, dominante in Spagna, non le abbian lasciate andar più in là d'una povera fantasia d'infermo.

Il moto sovvertitore nelle colonie ricevette la sua impronta dall'esser stato compiuto dai creoli. Il Governo spagnolo aveva visto volentieri che i giovani creoli entrassero nell'esercito della madre patria, e li aveva di buona voglia promossi anche nei servizi civili della metropoli, e talora perfino nei posti più alti, mentre però gli stessi creoli erano, per principio, esclusi da tutti gli uffici più elevati della amministrazione coloniale; ciò l'avevano preso piuttosto male, in quanto quegli uffici erano, di solito, molto ben retribuiti, e sfruttati dai titolari, quasi senza eccezione alcuna, per arricchirsi legalmente o anche illegalmente.

Dal che era derivato fra gl'impiegati coloniali spagnoli e i creoli un aspro contrasto, che non cessava neppure dove, come in Messico, Lima e Buenos Aires, una vita operosa e socievole lo nascondeva nelle classi colte ad una osservazione superficiale. Sia pure che, all'inizio, fosse impercettibile il numero di quelli che erano, nel loro rancore, in grado di far paragoni con le condizioni di altri paesi, come gli Stati Uniti dell'America nordica, e di derivarne il desiderio d'un simile ordinamento per la loro patria loro. E' certo però che da questi elementi fu guidato il moto sovversivo, e dal mancato riconoscimento della monarchia bonapartistica arrivò subito alla formazione di reggenze provvisorie, nelle quali prevalse decisamente l'elemento creolo.

Il passaggio del potere nelle mani dei creoli fu, al tempo stesso, la più efficace propaganda che potesse compiersi fra i loro pari in favore del nuovo ordinamento, mentre le stesse autorità spagnole, siccome non si mostrarono capaci di arrestare con la violenza questo moto, né si seppero risolvere a fargli le concessioni, imposte dalla condizione delle cose, contribuirono non poco ad allargare la rottura, formatasi tra la madre-patria e le colonie, e il ritardo di creare un ponte in questa rottura, quanto più tempo si aspettava, tanto più diventava impossibile.

L'incertezza delle cose nelle colonie fu però efficacemente favorita dagli avvenimenti nella madrepatria. Essendosi la reggenza nazionale spagnola potuta affermare soltanto fugacemente contro gli eserciti napoleonici, i difensori dell'indipendenza si videro, sullo scorcio dell'anno 1809, ristretti a poche strisce costiere, in ciascuna delle quali una giunta s'arrogava il supremo potere e impugnava la validità di tutte le altre.
Coloro poi che, nella stretta della necessità, vennero chiamati a Cadice, come rappresentanti dell'intero popolo, per salvare la patria dal grave pericolo, non seppero far di meglio che regalarle l'utopistico statuto del 1812, imitato dalla costituzione francese del 1793, che, prima che Ferdinando VII nel 1814 fosse ritornato nel suo regno, vi aveva scatenato la guerra civile.

Questi eventi non potevano mancare di controperare sulle colonie, abbandonate del tutto a se stesse. Mentre, nella maggior parte delle province, i vecchi monarchici riacquistarono, in breve, il potere, strappato loro, nel 1809, dai creoli nel sollevamento contro il regime napoleonico. A quel punto di questa restaurazione si formarono, sotto l'influsso dei moti liberali del 1812, dei gruppi politici, che esigevano anche per le colonie autonomia parlamentare.

Poiché la Spagna monarchica doveva, in sostanza, la sua salvezza all'aiuto dell'Inghilterra, anche nelle colonie guadagnò ormai terreno l'influenza inglese, e, con essa, si diffusero le speranze d'indipendenza, che la Gran Bretagna aveva invano tentato, nel 1805, di suscitarvi.
Teatro di questa evoluzione furono principalmente le province del Venezuela e di Buenos Aires. In Caracas, fino dal 5 aprile 1811, era stata emanata una dichiarazione d'indipendenza, che però era diretta solo contro Giuseppe Bonaparte.
Incalzato dai monarchici, il Governo, di recente formato, aveva deposto i suoi poteri nelle mani del Generale Miranda che, inviato dall'Inghilterra come apostolo di libertà, giunse in aiuto degli abitanti del Venezuela. Ma il dittatore non poté salvare la patria; cacciato verso la costa, fu dai suoi compagni tradito e messo nelle mani dei suoi nemici.
Una seconda volta, nell'estate del 1813, Simone Bolivar innalzò la bandiera della libertà nel Venezuela. Quantunque anche egli appartenesse ai traditori del Miranda, né fu il più fortunato discepolo, ed usò, per attaccare i monarchici nel Venezuela, le forze, che la giunta di Nuova Granata gli aveva affidato.

In Caracas, col titolo di «Liberatore della patria, si conferì la dittatura per essere in breve (due anni dopo con la restaurazione), come il Miranda, cacciato sulla costa, e vedere il crollo di tutti i suoi buoni successi, quando Ferdinando VII, avendo nel 1815, inviato, con un esercito, in America il Generale Morillo per ristabilirvi l'antico ordinamento, andò, nel Venezuela e in Nuovagranata, a rotoli il dominio della libertà boliveriana.

In Buenos Aires la rivoluzione aveva avuto un carattere meno radicale. La giunta, formata di creoli, che nel 1809 prese nelle proprie mani il Governo, seguitava sempre a riconoscere nominalmente la sovranità di Ferdinando VII, e da questo punto di vista trasse anche la conseguenza che, l'intero vice-reame del La Plata le dovesse obbedienza; ma disperse le proprie forze per ottenerla con le armi nell'Uruguay, nel Paraguay, in Tucuman.
Le sconfitte, che essa soffrì, promossero la dissoluzione interna. Non soltanto l'Uruguay e il Paraguay ottenevano intanto, combattendo, la propria indipendenza, ma nell'Argentina stessa il vasto interno del paese, dominato dai selvaggi cavalieri delle steppe, rifiutò d'obbedire ai cosmopolitici liberali di Buenos Aires, e si difese con fortuna dai loro assalti.

Nell'anno 1814 la guerra civile fece apparire non lontano il momento, in cui anche lì i regi avrebbero potuto, per l'immaturità della politica liberale, raccogliere i frutti del buon successo.
Col 1817 però la situazione d'improvviso cambiò, avendo, sul teatro meridionale della guerra, l'Argentino San Martin riunito nella provincia di Mendoza, posta al piede delle Ande, un piccolo esercito, egregiamente istruito e accuratamente armato, con il quale, nel gennaio del 1817, valicò le Ande, batté le truppe dei realisti a Chacabuco, ed entrò trionfante in Santiago del Cile.

La dittatura militare, che i Cileni gli conferirono, in segno di gratitudine, fu rifiutata recisamente dal San Martin, che organizzò invece col cileno O' Higgins alla testa, un Governo repubblicano, a cui egli stesso, come Generalissimo delle soldatesche, si subordinò.
Egli tuttavia dovette difendere ancora la sua creatura contro ripetuti assalti dei regi, che, ultrapotenti per mare, potevano a loro piacimento prescegliere i punti da attaccare: ciononostante, il 5 aprile 1818, dopo aver loro inflitto a Maipu una tremenda sconfitta, l'indipendenza del Cile parve assicurata. Insieme con la scomparsa del pericolo incominciarono, anche là, le discordie intestine, tanto che il San Martin dovette aspettare quasi due anni, prima di poter riprendere il suo programma di portare la libertà dal Sud verso il nord.

Essendogli riuscito di formare, sotto gli ordini dell'ammiraglio Cockrane, una flotta piccola, ma arditamente diretta, fece da questa sbarcare presso Pisco il suo corpo di spedizione, nel settembre 1820, sperando di procurare anche in questa provincia un sostegno al moto liberale. Dovette però accorgersi che nelle moltitudini le propensioni all'indipendenza trovavano un appoggio piuttosto molto basso, e che le classi più colte del Perù erano allora tuttavia, nella maggioranza, fedelissime alla monarchia, di modo che, potendosi a stento trascinare avanti la campagna liberale nel Perù, egli non era in grado, per il momento, di conseguire effettivi buoni successi.

Eventi di ogni specie concorsero a dimostrare questo impedimento o stallo. Nella Spagna erano saliti al Governo nel 1820 i rivoluzionari liberali che parevano promettere alle colonie delle concessioni, e proponevano una tregua; mentre nel frattempo nelle province liberate si faceva un bruttissimo uso dell'indipendenza, di recente conquistata, essendo le moltitudini troppo incolte per prendere una attiva parte alla vita politica, lasciandola così in mano ai caporioni, che appena appena erano in grado di scongiurare i pericoli esterni, le fazioni e i contrasti di queste.

Le colonie s'erano sollevate per prendere nelle loro mani gli affari propri; ma subito s'affacciava il problema quanto si estendessero questi affari propri. Mentre gli uni volevano mantenere le frontiere dei grandi distretti amministrativi spagnoli, gli altri sostenevano il principio che ogni piccolo gruppo, congiunto da interessi speciali, godesse e avesse il diritto di pretendere anche un ordinamento politico indipendente nel regno della libertà.

Pochi soltanto possedendo le doti di statisti, e press'a poco nessuno l'esperienza politica, i nuovi Governi quasi in nessun luogo riuscivano ad acquistarsi considerazione, e a mantenere l'ordine pubblico. Spezzandosi le vecchie divisioni provinciali in distretti sempre minori, e agevolando così un numero sempre maggiore di persone a giungere ad afferrare il potere, lo spezzettamento venne ben presto favorito dal più basso egoismo.

Tali esperienze dovevano convincere i politici prudenti, non accecati dall'egoismo, che i paesi coloniali non erano ancora maturi per un Governo repubblicano, come intendevano introdurlo i fanatici della libertà. Appunto questi migliori tra i sostenitori dell'indipendenza considerarono il benvenuto l'armistizio offerto loro dal Governo liberale spagnolo, e lo usufruirono per intavolare trattative intorno alla formazione, sul suolo americano, di un Impero coloniale indipendente, anche se posto sotto un rampollo della dinastia ereditaria.

Sul teatro meridionale della guerra, dove Perù e Bolivia stavano quasi insieme dalla parte dei monarchici, mentre il Cile e le province argentine si dilaniavano in sanguinose lotte civili, non sembrava si sarebbero opposti a quel disegno ostacoli insuperabili. Ne fu resa però impossibile l'attuazione dallo svolgimento delle cose nel nord, dove il Bolivar, nell'estate del 1817, compiuto un terzo tentativo di abbattere il dominio spagnolo, era finalmente stato meglio favorito dalla fortuna.


Questa volta i guerrieri della libertà avevano scelto come base d'operazione il territorio dell'Orinoco, meno accessibile agli assalti spagnoli, e trasferito la sede del Governo in Angostura, dove il Bolivar convocò un congresso dei sostenitori dell'indipendenza delle province nordiche, il quale, il 17 dicembre 1819, proclamò l'indipendenza del Venezuela e pose il Bolivar con pieni poteri dittatoriali alla testa dello Stato.
Allora il Bolivar portò la guerra di là dalle Ande per vincere i suoi avversari nel centro della loro potenza. Mentre i regi cercarono di coprire Venezuela, e il corso inferiore del Magdalena, come il territorio immediatamente minacciato, il Bolivar avanzò, attraverso i llanos dell'Apure, verso le montagne, che valicò presso Sogamoso. Avendo a Boyaca i realisti tentato di sbarrargli la via, la loro sconfitta aprì alle truppe del Bolivar le porte di Santa Fè di Bogota, la capitale viceregale, e pose fine alla dominazione spagnola nelle montagne.

Nuova Granata e Venezuela furono congiunte, formando la repubblica colombiana, alla testa della quale si affermò il Bolivar. Sebbene anche là la tregua del 1820 arrecasse un poco di riposo ai partiti in lotta, il Bolivar, nella sua ambizione, se ne servì soltanto per consolidare la propria dittatura, e, nella primavera del 1821, riprese la guerra, avanzando dalle montagne verso il centro del Venezuela, battendo le truppe spagnole a Carabobo, occupando Caracas e costringendo gli avanzi dell'esercito nemico a cercare asilo sotto la protezione dei cannoni di Puerto Cabello.

Ormai soltanto alcune piazze costiere rimanevano nelle mani degli Spagnoli, poiché essi dominavano il mare; ma in tutto l'interno del paese non conservavano più alcuna guarnigione. D'altra parte, i cittadini della repubblica della Colombia non godevano davvero troppa libertà, essendo la signoria del Bolivar una pura dittatura militare, che non sdegnava di appoggiarsi perfino su mercenari stranieri.
Per quanto il Bolivar lodasse con frasi altisonanti i vantaggi della libertà, prima di tutto attuava un energico stato d'impronta militaresca, che a mantenerlo richiedeva non piccola fatica; ma che, in cambio, la stessa dissoluzione degli antichi organismi politici consolidava.

Fino a quel momento non c'era stato alcun legame di sorta tra il teatro della guerra meridionale e quello settentrionale. Dopo non rimaneva da conquistare, se non il territorio intermedio tra ambedue, ma il congiungimento doveva avvenire da solo; ed esso fu prodotto dagli avvenimenti di Quito.

Sebbene il Bolivar avesse nei suoi proclami già incorporato quella provincia nella sua repubblica colombiana, non era tuttavia riuscito a cacciarne i regi; anzi un attacco combinato, che il Sucre da Guayaquil, e il Bolivar da Pasto intrapresero nel 1821 contro l'altipiano di Quito, finì con la ritirata, senza - di ambedue i corpi - aver concluso nulla,. Solo quando il San Martin mandò una parte delle sue truppe all'esercito del Sucre, questi poté rinnovare l'assalto e, dopo i magnifici combattimenti di Riobamba e di Pichincha, impadronirsi di Quito, senza che il Bolivar avesse occasione di immischiarsene.

Per gratitudine del fortunato aiuto, il distretto di Guayaquil, che fra Quito e il Perù si trovava, sotto l'aspetto costituzionale, non in una condizione a sufficienza chiara, si sottopose alla comune protezione di ambedue gli eroi della libertà, Bolivar e San Martin, e li invitò a recarsi insieme nella sua capitale per festeggiare la vittoria, e concertarsi intorno all'ulteriore loro condotta.

Se i patriotti avevano sperato di rendere così un servizio alla pace tra le repubbliche sorelle, furono amaramente ingannati: perché il Bolivar giunse primo a Guayaquil ed annesse, senza interrogare né i cittadini, né il San Martin, la provincia alla sua repubblica colombiana.
Che cosa veramente accadde nei contatti dei due eroi della libertà in Guayaquil, é rimasto un mistero; il risultato però fu che il San Martin rinunziò ai suoi uffici e alle sue dignità, volse le spalle alla terra, per cui, combattendo, aveva conquistato l'indipendenza, e si ritirò in Europa, lasciando all'ambizione del Bolivar anche le ultime province, non ancora occupate.

Il San Martin, prima della sua partenza, aveva convocato nel Perù un'assemblea costituente, nella quale si manifestò una scarsa inclinazione ad assoggettarsi alla pseudolibertà della dittatura militare del Bolivar. Solo quando lo sforzo di sopraffare gli Spagnoli con le proprie forze fu andato a vuoto, e la sfiducia e la gelosia minacciavano l'unione fra patrioti, la rappresentanza del paese risolvette di chiedere soccorso al Bolivar e di affidargli la dittatura anche nel Perù.
Nella battaglia di Junia (6 agosto 1824) il Bolivar giustificò la fiducia, riposta in lui dai Peruviani; ma, mentre si accingeva a tesoreggiare la vittoria con un vigoroso inseguimento, minacciose notizie lo richiamarono nella Colombia, dove s'incominciava pure a seccarsi della sua egoistica ambizione. Per conservare le basi della sua potenza politica, egli dovette di nuovo confidarsi, per gli assunti d'indole strategica, al suo fedele generale in sott'ordine, Sucre, a cui toccò il compito di ricercare, con l'esercito indebolito, i regi nel centro della loro potenza, nelle valli di Cuzco.

L'incarico era così pericoloso che gli Spagnoli credevano di esser già sicuri della vittoria sull'esercito dei patriotti, ma il Sucre seppe sfuggire alla rete, dai suoi inseguitori che quasi lo circondavano, e, quando si presentò loro presso Ayacucho, lo fece in condizioni così vantaggiose da ottenere, il 9 dicembre 1824, un completo trionfo.

Nella capitolazione che gli tenne dietro, gli ultimi eserciti, che avevano nel Perù e nella Bolivia combattuto per il mantenimento della dominazione spagnola, deposero le armi, e si obbligarono a sgombrare il paese. Così fino a Callao e a Puerto Cabello, le cittadelle delle quali erano inespugnabili, l'intera America meridionale era indipendente e libera.

Alle guerre dell'indipendenza del Mezzogiorno il Messico e l'America centrale, a nord dell'istmo, non avevano partecipato, quantunque avessero tenuto un atteggiamento incoraggiante. Anche il Messico, nell'anno critico del 1812 aveva avuto la sua commozione interna, sebbene questa avesse avuto un carattere del tutto diverso dal sollevamento del sud, dove la guerra d'indipendenza era stata quasi esclusivamente una lotta dei creoli, che, di fronte agl'indigeni, si sentivano proprio la razza privilegiata, destinata al predominio, come erano stati gli Spagnoli.

Nel Messico invece, il movimento si presentò fin dall'inizio come una sollevazione deglI indigeni contro glI immigrati costringendo quindi creoli e Spagnoli ad una lega comune per preservare sé stessi.
Un prete spagnolo, di nome Michele Hidalgo, aveva, con le sue prediche fanatiche contro gli oppressori, acquistato un enorme seguito fra i meticci e glI Indiani del Messico, tanto che il suo esercito, ingrossato fino a 100.000 uomini, inondò quasi da Oceano a Oceano le province al nord della capitale, e rovesciò ogni resistenza in campo aperto. Sebbene perfino le minori città di provincia non riuscissero a far nulla contro queste turbe, lo stesso prete con questa moltitudini male armata, indisciplinata e mancante d'una vera direzione strategica, non poteva certo osare di assalire la capitale.

Così avendo la rivolta consumato le sue forze, l'intima sua rovina aiutò creoli e Spagnoli, insieme congiunti, a prendere una sanguinosa vendetta sulle turbe sobillate degl'Indiani.
La paura, che questi ispiravano, tenne uniti per quasi dieci anni gli elementi spagnoli e creoli; poiché la fiamma dell'astio nazionale, senza seria importanza ne' suoi singoli fenomeni, seguitava a covare tra gl'indigeni, e divampava di nuovo ogni tanto in vari luoghi.

Ma quando i creoli si accostarono agli indigeni, anche nel Messico giunse l'ultima ora per la dominazione spagnola.
Un ufficiale creolo, Agostino Iturbide, vagheggiò per il Messico disegni simili a quelli che il San Martin aveva avuti di mira per il Sud; si preparò in Iguala un proclama che negava l'obbedienza al viceré, pur chiedendo un principe spagnolo come sovrano della monarchia messicana, e, allorché dopo più di un anno di trattative, non fu possibile intendersi, l'Iturbide stesso assunse nel maggio 1822 la corona imperiale.


L'atto di indipendenza del Messico

Appena trascorso un anno, anche in Messico il dissolvimento interno era così progredito che il principio monarchico fu del tutto messo in disparte, e sostituito da quello della repubblica federale.

Quantunque gli Stati dell'America latina si siano, molto a lungo, adoperati per arrivare ad un certo equilibrio politico, in molti di essi questo processo non é terminato nemmeno oggi.
La ragione prima e più importante é che le colonie spagnole erano, senza eccezione, del tutto immature per la libertà, regalata loro dalla guerra d'indipendenza. I patriotti fanatici della forma di Governo repubblicano consideravano gli Stati Uniti come il loro modello, e credevano bastasse imitarne, con la maggiore possibile esattezza, la costituzione per eguagliarne con altrettanta rapidità la sua accettazione, trascurando del tutto le grandi differenze, esistenti fra le condizioni politiche ed economiche dell'America anglosassone e quelle dell'America latina.

Infatti nel Nord viveva una popolazione stipata in uno spazio relativamente ristretto (le 13 colonie dei primi States erano appena un milione di kmq - una piccola striscia sulla costa atlantica), poco soggetta alle ingerenze amministrative, così energica e vigorosa da liberarsi dalle catene di una tutela politica, che solo, e quando era ormai troppo tardi, la madre patria tentò di imporle.
Nel Mezzogiorno le scarse colonie europee, diffuse su un territorio enormemente esteso, legate da vincoli assai lenti nell'interno, poiché avevano, soltanto in misura limitatissima, una vera e propria comunanza d'interessi, difettavano di qualunque comprensione dei doveri politici dell'autonomia, essendo il bene e il male loro quasi sempre dipeso dagl'impiegati, che le amministravano per incarico e secondo il tornaconto della madrepatria.

Ogni colono era sempre andato, debitore del proprio profitto e delle proprie distinzioni non già al gagliardo lavoro, ma al favore dei governanti; quindi seguitava a cercare, naturalmente, il proprio vantaggio sfruttando la potenza e l'influenza altrui. Così a tutta la lotta per la libertà mancò del tutto un pensiero fondamentale legittimo. Le colonie si erano levate contro la pretesa di esser consegnate a un nuovo Governo, a cui anche la madrepatria aveva resistito.

Unicamente la rilassatezza, in tal modo prodotta, dell'ordinamento statale aveva permesso sorgesse il desiderio dell'indipendenza, e, a vero dire, più che altro fra coloro che, in un periodo torbido, avevano usurpato il potere, e ormai, solo nel distacco dalla madrepatria, scorgevano la probabilità di conservarlo.

La libertà, che i combattenti per l'indipendenza iscrivevano nelle loro bandiere, era per questo motivo, in generale, una specie di libertà singolare, essendo il popolo, in cui i meticci e gli Indiani formavano una notevole maggioranza, del tutto impari ai doveri che il nuovo Stato costituzionale gli addossava, e non dandosi pena i governanti di adoperarsi all'educazione politica delle moltitudini, di cui trovavano molto più comodo servirsi per proseguire i propri interessi particolari.
Di qui il tribunizio parlare dei caporioni; di qui la straordinaria efficacia delle frasi, e la tronfia falsità della retorica politica. Le medesime cause implicavano
necessariamente che il rispetto per la legge e per l'ordine fosse sempre così meschino. Il moto che, senza fini comuni più alti, incominciò con la violazione delle leggi e con il turbamento della pubblica tranquillità, produsse l'inevitabile conseguenza che, ad ogni ulteriore passo, l'interesse, volta a volta predominante, cercasse ogni giustificazione in sè stesso, e non si sentisse obbligato a rispettare e mantenere l'assetto esistente dello Stato.

Così le più sconsiderate mutazioni statutarie, le violazioni della costituzione e persino le violenze divennero fatti quotidiani, che erano del tutto incompatibili con la vera libertà. Del resto la libertà di quei giovani organismi politici trovava il suo più acerrimo nemico nell'ambizione di alcuni personaggi.
Che un uomo, come Simone Bolivar, potesse quasi dirigere a suo modo il moto liberale dell'intero continente meridionale, fu un segno chiarissimo che l'America latina era del tutto immatura per comprendere il concetto di una vera libertà.
Il culto, tributato fino ad oggi, ad un personaggio come lui, in gran parte del paese, dimostra solamente che il senso della libertà ha guadagnato poco terreno nell'America spagnola, anche se, di continuo, grandi e piccoli eroi del suo stampo non violassero, nel nome della libertà e dietro il suo esempio, la libertà stessa.

La ribellione delle colonie alla madrepatria era stata l'opera dei creoli; i quali, credutisi trascurati e danneggiati dagli Spagnoli, avevano invitato le moltitudini a sollevarsi, ed erano stati ascoltati, quantunque essi, nella massa del popolo, fossero una piccola minoranza. Naturalmente gli altri ceti (ancora più piccoli ma molto potenti) muovevano contro i creoli, appena costoro, arrivati al potere, lo pretendevano tutto per sè.
La lotta delle razze aveva già in altri luoghi, e molto nell'isola di Haiti, compiuto il suo tipico corso, prima che nell'America spagnola incominciasse la battaglia per la libertà.
Forme così brutali, come essa aveva rivestito a Santo Domingo, furono risparmiate alle rimanenti province, poichè solo il Messico ebbe a godersele nella ricordata rivolta del prete Hidalgo, e in altre sommosse posteriori degli indigeni, che furono più frequenti e più importanti che altrove. Ma il conflitto etnico si svolse, da per tutto, nella medesima maniera. Già, durante le guerre di indipendenza, si dovettero, nei più svariati paesi, fare concessioni alle razze in lotta fra loro.

I selvaggi llaneros del Venezuela, come i gauchos delle steppe dell'Argentina, erano, nella strabocchevole maggioranza, dei meticci, che i creoli, superbamente arroganti, avevano, fino allora, creduto di poter guardare dall'alto in basso. Orbene in ambedue le repubbliche, poco dopo consolidata l'indipendenza, il predominio passò nelle mani di quei meticci, dietro ai quali nelle ulteriori lotte dei partiti, si sono, più volte, levati su i puri Indiani.
I turbamenti dell'ordine, quasi ininterrotti, richiamavano naturalmente sempre nuovi campioni sul terreno. All'inizio il creolo, con l'aiuto dei meticci, sperava di dominare i suoi compagni; l'avversario, creolo o meticcio, si valeva allora degli Indiani contro di lui, cosicchè andava a finire che meticci e Indiani, consapevoli ormai della propria importanza politica, iniziavano, anche senza capi estranei, a difendere i loro interessi e a stendere la mano sul potere.

La prima età della storia dell'indipendenza latino-americana sovrabbonda di lotte per la determinazione delle frontiere, quantunque alcuni territori ne siano andati del tutto esenti.
Così l'Impero brasiliano non aveva durato fatica a consolidarsi, in quella ampiezza, che in una storia più che secolare aveva posseduto; anzi gli era stato dalla rivoluzione arrecato un aumento territoriale, essendoglisi l'Uruguay congiunto, senza opposizione, forse sopratutto perchè non stimolava con magnifiche promesse la cupidigia di nessun conquistatore; mentre invece sia nel nord-ovest, sia nel sud-est la lotta per le frontiere politiche fu instancabile ed aspra.

La repubblica della Colombia, fondata dal Bolivar, basava le sue pretese territoriali più sul diritto di conquista che su una continuità storica.
Il Venezuela non aveva mai formato una vera e propria parte integrante del vicereame di Santa Fè: l'Ecuador, almeno qualche volta, sì; solo Guayaquil era stato, per lo più, sotto la amministrazione peruviana.
Ma il Bolivar, nella insaziabile sua sete di onori e di potenza, aveva incorporato anche il Perù e la Bolivia nella repubblica colombiana in un solo complesso, per quanto superficiale, e aveva provato a guadagnarle perfino il Cile e l'Argentina.

Del resto, in molti di questi territori le vere frontiere erano tanto poco incontestabili storicamente, quanto per la creazione del Bolivar. Il Perù poteva, richiamandosi alla tradizione storica, pretendere, senz'altro, che almeno l'intera Bolivia gli appartenesse, mentre i confini di questa in Tucuman verso l'Argentina non erano punto indiscutibili. Incredibile era lo scompiglio nel territorio de La Plata. Il vicereame di Buenos Aires era una creazione così recente che le sue parti tendevano a separarsi, prima di esser consapevoli di una certa omogeneità; mentre poi la preminenza del distretto di Buenos Aires sugli Stati de La Plata si fondava soltanto sull'immediato passato, avanti della rivoluzione.

Ma proprio qui si facevano avanti i Governi patriottici con le più esagerate richieste.
Il primo governo federale considerava tanto il Paraguay e l'Uruguay, a causa della loro subordinazione al vicereame, quanto anche Tucuman, per la sua precedente appartenenza di molti anni, parti integranti della nuova repubblica, e vantava inoltre pretese su di una parte della Bolivia, considerando i confini naturali della cresta delle Ande quali frontiere politiche.
Queste ragioni non solo erano formulate giuridicamente, ma dovevano essere fatte valere nella pratica perfino con l'uso delle armi, sebbene appunto lì la diversità degli interessi fosse una conseguenza di tradizioni storiche diverse.

L'Uruguay, con le sue incerte frontiere fra il territorio spagnolo e quello portoghese, si sentiva in storica opposizione con Buenos Aires, fiorita più tardi e alle sue spese; il Paraguay, che conservava dalla storia del suo passato il bisogno dell'isolamento di fronte ai suoi vicini, avendo fatto prigioniero l'esercito di Buenos Aires, mandato, nel 1811 sotto gli ordini del Belgrano, ad assoggettarlo, assicurava per lungo tempo la propria indipendenza.
Tucuman era stato troppo a lungo dal Governo spagnolo elevato artificialmente a perno del territorio de La Plata, perchè non dovesse afferrare l'occasione di scuotere il giogo di Buenos Aires, che esso aveva sempre tollerato di mala voglia.

Nella Bolivia, all'inizio, il moto dell'indipendenza era stato esclusivamente attizzato da Buenos Aires: ma, poichè il crollo della metropoli orientale vi successe prima della definitiva vittoria sulla potenza spagnola, anche lì si formò uno Stato a sè, anche se fra tutti, era quello che almeno poteva mettere davanti una sua giustificazione storica. La disparità degli interessi si estendeva fino nel più vicino territorio di Buenos Aires, poiché i grandi proprietari di mandrie delle Pampas, nient'affatto disposti a lasciarsi dettare legge dai commercianti della città marittima, sguinzagliavano i famigerati "gauchos", contro le scarse truppe, che disponeva il Governo centrale.
Così dell'antico vicereame, dieci anni dopo la proclamazione dell'indipendenza, obbediva al Governo dei liberatori solo il piccolo distretto costiero attorno alla Capitale.

Sebbene il Messico avesse seguito tardi il movimento di indipedenza, le propensioni disgregatrici si fecero valere anche lì. Erano sempre stati congiunti, solo mediante legami assai lenti, col vicereame della nuova Spagna i piccoli distretti dell'America centrale, i quali nell'impero dell'Iturbide cercarono e trovarono all'inizio un appoggio per l'indipendenza; ma, quando quell'effimero organismo scomparve, quei piccoli Stati presero la loro via, fondando nel 1823 la repubblica federativa dell'America centrale, che fino al 1839 a stento si resse, quantunque infuriassero le lotte intestine in essa e nei singoli Stati, quasi senza interruzione.
Allora venne spezzato anche questo legame così lento. I contrasti degl'interessi staccarono le une dalle altre quelle repubblichette; mentre soltanto le bramosie di potere dei singoli presidenti facevano, di tanto in tanto, risorgere ( ma solo demagogicamente) il disegno di un più stretto vincolo, che quasi sempre poi si spezzava nei conflitti civili.

Alla lotta per l'indipendenza e per la libertà successe, quasi in tutte le parti dell'America spagnola, dopo guerre civili più lunghe o più corte, la dittatura di un personaggio più potente. Invano nella repubblica colombiana del Bolivar l'assemblea costituente si era affaticata per introdurre una forma di Governo, in qualche maniera, parlamentare, giacchè ad ogni tentativo di restringere la sua autorità dittatoria il Bolivar aveva sempre risposto con la commedia delle dimissioni, e i suoi satelliti avevano saputo, ogni volta, intimidire così abilmente i poteri civili che il dittatare, dopo semplici concessioni apparenti, veniva pregato di assumere di nuovo il Governo.

Ma così gli Stati confederati, come il parlamento centrale andaron sempre più stancandosi dalla tutela di uno solo. Fin quando, avendo il Bolívar, prima del congresso del 1829, fatto commedia e notificato ancora una volta di essere pronto a dimettersi, vide accolta, con sgradevole meraviglia, la sua offerta.

D'altra parte, questo evento fu il colpo di grazia per la repubblica colombiana, poichè le singole parti, saldate insieme dalla ferrea volontà del Bolivar, invece di compattarsi, si separarono immediatamente, provvedendo ciascuna alle proprie sorti, sebbene la dittatura militare restasse in ciascuna la forma caratteristica del Governo.

Nella maniera migliore se la cavò, nella separazione, la vera Colombia, costituitasi, con le frontiere dell'antico vicereame di Santa Fè di Bogotà, sotto il nome di repubblica di Nuova Granata, poiché, per quanto i suoi presidenti provenissero tutti, senza eccezione, dalle file dell'esercito, non ebbe più a tollerare una nuova tirannia di un dittatore e tantomeno militare.
Nell'Ecuadorrimase vivo, ancora a lungo, il contrasto fra le due capitali Quito e Guayaquil, tanto che, non di rado, ciascuno si dette un proprio capo, che s'impegnò a imporre con la forza alla città sorella. Chi prevalse in queste lotte faziose fu il generale Giovanni Giuseppe de Flores (1830-1864), che ora, come dittatore, ora come presidente costituzionale, ora di persona, ora mediante le sue creature, esercitò sull'infelice paese un sanguinoso dispotismo, che soffocò ogni Governo autenticamente liberale.

Perfino dopo che erano riusciti a cacciarlo in esilio, i suoi continui intrighi e le macchinazioni rivoluzionarie non lasciarono riposare l'esausto paese, tanto che, solo con la sua morte, incominciò, nel 1864, per l'Ecuador un periodo di maggior stabilità. Una parte, simile a quella del Flores in Quito, fu rappresentata, nel Venezuela, dal Generale Giuseppe Antonio Paez (1830-1863). Come comandante delle squadre dei cavalieri dei «llanos», egli aveva combattuto la guerra d'indipendenza al lato del Bolivar, si era poi fatto capo dei separatisti venezuelani, e nel 1830, dopo il dissolvimento della repubblica colombiana, diveniva il primo presidente costituzionale della giovine repubblica.
Ma anche lui, più di una volta, violò i diritti costituzionali, governando, come dittatore, quando non potè guadagnarsi la maggioranza parlamentare, quantunque, nel complesso, si distinguesse, e si distinguesse assai in meglio per il suo reggimento, dal Flores, che fu il suo emulo nell'Ecuador; anzi egli vide addirittura il suo trionfo, che i concittadini, dopo un periodo di selvagge lotte faziose, lo richiamarono per ristabilire la tranquillità e l'ordinè, dall'estero, dove l'avevano esiliato.
Anche il suo governo però fu sempre un dispotismo militare; nè l'infelice Venezuela, pur dopo di lui, ha quasi mai imparato a conoscere altro sistema politico che il più o meno occulto dispotismo militare.

Tempi soprattutto torbidi erano riserbati al Perù. Il lento vincolo con la repubblica colombiana era stato, fino dal 1829, spezzato dal presidente Lamar, dacchè la vittoria del Sucre sui ribelli, a Tarqui, non valse a mantenere soggetti i recalcitranti a quella potenza vacillante; però i capi dei partiti, in conflitto per il potere, lacerarono lo Stato non solo in lotte civili, ma lo sottoposero, per un po' di tempo, addirittura al dominio straniero.

La Bolivia aveva avuto la fortuna di trovare nel Sucre un primo presidente, che era un repubblicano sul serio; il quale, rifiutata l'offertagli dittatura, depose, per quanto eletto per sei anni, fin dal secondo, la presidenza, non essendosi potuto intendere col congresso.
La Bolivia non ha più visto alla sua testa, un'altra volta, un presidente di ugual delicatezza di coscienza. Da principio uscì vincitore dalle lotte partigiane il meticcio Andrea di Santa Croce, che si eresse a dittatore della Bolivia, e s'immischiò anche nelle contese civili del Perù, sfruttandole in modo da far risorgere l'antica unione della Bolivia (Alto Perù) e del vero e proprio Perù.

Dal 1836 al 1839 egli diresse il Governo, come dittatore di ambedue le repubbliche, mai però riconosciuto da tutti. Avendo i suoi nemici cercato aiuto presso il Cile, costui, nella battaglia di Yungay, perdette il potere tanto sul Perù, quanto sulla Bolivia; ma in ambedue le repubbliche i torbidi e le lotte partigiane di generali ambiziosi seguitarono a lungo, soffocando in germe ogni serio sviluppo della prosperità popolare.

La dittatura repubblicana non rimase punto ristretta agli Stati, nei quali l'aveva introdotta l'esempio del «liberatore» Bolivar; che essa fu la forma tipica del Governo molto di là dalle frontiere della repubblica colombiana. Soltanto il Cile seguì una via diversa. Quantunque l'introduzione del sistema repubblicano gli procurasse un periodo di violente scosse interne, esso lo superò più rapidamente e più facilmente che non gli Stati fratelli, giacché una lunga serie di presidenti leali, ma energici, alieni da precipitosa mania novatrice, ma intenti a gettare un ponte dal passato verso un avvenire di libertà avviò il Cile, per una generazione (1833-1874), ad uno svolgimento più fecondo di quello riservato alla maggioranza degli altri Stati dell'America spagnola.

Gli avvenimenti, anche nel Paraguay, pigliarono una piega tranquilla e stabile, quantunque non sulla base della libertà repubblicana. Quando il Paraguay ebbe affermato la propria indipendenza contro le tendenze di Buenos Aires al predominio, il dottore in legge, Giuseppe Rodriguez di Francia, afferrò, nel 1814, le redini del Governo, che non si lasciò più cadere dalle mani fino alla sua morte nel 1840.
Fino dal 1817 si fece concedere la dignità dittatoria a vita: da quel momento represse con crudeltà, senza riguardo alcuno, tutti i moti di opposizione contro il suo dispotismo, che s'affaticava a conservare in vita, chiudendo il paese ad ogni influsso straniero. Ciò gli riuscì così bene che il sistema dittatorio nella libera repubblica del Paraguay sopravvisse anche alla morte di lui. Nel 1841 gli successe alla testa dello Stato il nipote Carlo Antonio Lopez, che nel 1862 potè addirittura trasmettere -- quasi fosse ereditaria -- la suprema autorità, per quanto, solo in maniera provvisoria, al figlio Francesco Solano Lopez.

Che il vicereame di Buenos Aires, più che la maggioranza degli altri organismi statali, racchiudesse elementi disparati è stato già accennato. Questa appunto fu, per lungo tempo, la sventura dei suoi Governi. Veramente, dopo violente lotte interne, Giuseppe di Rivadoria, nel 1826, aveva contribuito alla vittoria del principio unitario, ma, un reggimento parlamentare non sarebbe mai riuscito a tenere insieme durevolmente elementi recalcitranti. Del resto anche lì, nel 1827, il dispotismo abbattè il sistema della libertà repubblicana. Giuseppe Emanuele de Rosas si era, come il Paez nel Venezuela, formato coi «gauchos » (mandriani) delle « pampas » una truppa di cavalleria, incondizionatamente devota, con la quale rese fedeli servigi alla libertà, finchè non fu divenuto abbastanza forte per opprimerla, a suo uso e consumo.

Forse nessun altro dittatore dell'America meridionale ha così imbrattato le mani nel sangue come il Rosas; nessuno, senza riguardi di sorta, ha, come lui, fatto l'ambizione e la sete del potere esclusiva norma della sua condotta. Eppure non si può negare alla sua politica una certa larghezza di linee, avendo saldamente tenuto insieme le vere e proprie province argentine, e conservata la speranza di unire di nuovo, sotto il suo dominio, tutte le parti dell'antico vicereame di Buenos Aires.
Non invase immediatamente il Paraguay e l'Uruguay, soltanto perchè sapeva che un colpo fallito avrebbe posto fine al suo governo anche nell'Argentina; ma non si lasciò sfuggire occasione alcuna per far sì, promuovendo le interne discordie che le province ribellatesi dovessero riassoggettarsi all'influsso dell'antica metropoli.

Alla fine, a causa di tali propensioni, provocò la propria caduta. L'appoggio concesso ad un pretendente dell'Uruguay avendolo posto in conflitto tanto con l'Inghilterra, e la Francia, quanto con l'Uruguay, e col Brasile, il suo dispotismo, odiato anche nel suo paese fu impari a Tanti nemici.
Avendo l'Uruguay con l'aiuto dei nemici esterni, levato nell'interno, la bandiera della rivolta, la dittatura più crudele dell'America spagnola andò, nella battaglia di Monte Caceros, il 3 febbraio 1852, incontro alla propria fine.


Meditando sull'uso, che della libertà, acquistata a caro prezzo, venne fatto, dobbiamo convenire che il Messico non si trovò meglio delle altre province già spagnole, avendo la caduta dell'Iturbide scatenato anche là una sanguinosa contesa per il potere supremo; contesa nella quale Antonio Lopez di Santa Anna (1832-1867) tiene un posto, rassomigliante a puntino a quello del generale Flores nell'Ecuador. Per scaltrezza e mancanza di coscienza egli non la cedeva a nessuno dei despoti delle altre repubbliche, mentre poi l'egoismo uguagliava in lui le altre qualità. Anche lui preferì di non mostrare sempre l'autorità che esercitava, ma di spingere avanti nei posti di responsabilità uomini di paglia del suo seguito; anche lui è un tipico rappresentante dei dittatori liberali, imitanti l'esempio del Bolivar, per quanto a lui ancor meno che ai più dei suoi compagni sia riuscito di morire nel godimento del potere.

Con una simile specie di Governo non si poteva, in generale, parlar troppo di evoluzione costituzionale nelle repubbliche dell'America latina. Naturalmente tutti quei giovani Stati si erano affrettati a dichiarare la loro indipendenza dandosi una costituzione rappresentativa, e, in tutti questi esordi costituzionali, avevano, dal più al meno, tenuto come modello lo statuto degli Stati Uniti, che però dovette, sempre secondo le condizioni delle varie province, sottostare a modifiche maggiori o minori; quantunque in un periodo di dittature militari, quasi ininterrotte, le più di queste costituzioni rimanessero lettera morta.

Nei fatti il partito, a volta a volta governante, si manteneva con tutti i mezzi che il potere consente, in possesso del potere, e, approfittando di questa condizione di cose, i suoi avversari si arrogavano il diritto di opporsi, a loro volta, con aperta violenza, al Governo, finchè non riuscissero ad abbatterlo, e a conservarsi, con gli stessi mezzi, al potere. Quasi ogni rivoluzione fortunata traeva con se però, come conseguenza, un fondamentale mutamento nella costituzione, talchè le repubbliche, più facilmente dai torbidi politici, poterono contare le modifiche costituzionali a dozzine. Ognuno eliminava o inseriva cose sgradite o ambite.

L'esempio degli Stati Uniti, da un lato, e, dall'altro, la circostanza che, di frequente, gruppi con interessi cozzanti, vivevano entro i maggiori organismi statali, fecero sì che il principio della repubblica federativa acquistasse sempre più terreno, quantunque i primi dittatori, non pochi dei quali avevano con le armi sostenuto il mantenimento delle frontiere politiche del periodo coloniale, sostenessero, naturalmente, lo Stato unitario e accentrato. Ma l'idea del federalismo sia nel Nord sia nel Sud-est, si fece, fin da principio, assai strada, mentre nelle lotte faziose stavano spesso gli uni di fronte agli altri, tanto centralisti e federalisti, quanto conservatori e liberali.

Allorchè, cessato il predominio dei dittatori, saliti su durante le guerre dell'indipendenza, giunse a dominare una generazione, cresciuta sotto il così detto regime liberale, si palesò un rispetto più forte per gli interessi particolari, che aiutò il principio federativo nei maggiori Stati a trionfare quasi dovunque. Nel Messico, subito dopo la caduta dell'Impero dell' Iturbide, nel 1824, era stata pubblicata una costituzione, che congiungeva i singoli Stati mediante un lento vincolo.
Negli aspri conflitti dei partiti del periodo successivo lega di Stati e Stato federativo si alternarono più volte, l'uno all'altro, finchè non ne uscì vittorioso di nuovo il principio federativo; ma essendo stato il Messico governato a lungo da dittatori, i diritti particolari dei singoli Stati non si sono potuti svolgere convenientemente. A questo proposito è curioso che, nel 1826, proprio nel Cile, si cercò di dividere la repubblica in cinque Stati, sebbene le propensioni conservatrici, che in questo paese furono, con speciale saggezza, coltivate, abbiano impedito la ripetizione di simili sforzi. A provare il diffondersi dell'idea dello Stato federale, basta riflettere che persino l'Impero del Brasile credette di doverne tener conto; tanto è vero che, nel 1834, venne concesso alle province imperiali il diritto di convocare assemblee legislative, che, di fronte al potere centrale, presero in tutto e per tutto il posto dei parlamenti degli Stati nelle repubbliche federali.

Il principio federativo acquistò, alla metà del secolo 19°, una maggiore ampiezza. Dopo la caduta del dittatore Rosas, la repubblica Argentina, nel 1853, si convertì in una confederazione, la quale, solo dopo lunghe e aspre lotte fra amici e avversari dell'unità, si avviò a svolgere durature forme costituzionali. Ma poi il concetto della confederazione, che, più che in quanluque altro luogo, era fondato sulle condizioni storiche, conseguì piena vittoria.

Circa il medesimo tempo anche nella Nuova Granata i campioni del principio federale iniziarono i loro assalti contro i sostenitori dello Stato unitario, e, dopo ripetute rivoluzioni, trasformarono la repubblica di Nuova Granata nel 1861 nella repubblica federale degli Stati Uniti della Colombia. Quasi nel medesimo tempo si compiè una simile evoluzione nel Venezuela.

Già nell'anno 1856 una delle innumerevoli rivoluzioni venezuelane condusse alla formazione di non meno di 20 Stati, a cui veramente, solo dopo lunghissime guerre civili, la costituzione del 1864 conferì il riconoscimento giuridico. Più tardi, essendosi anche i Venezuelani persuasi di aver fatto troppe concessioni allo spezzettamento politico, non giustificato da alcun motivo storico, una nuova costituzione ridusse i 20 Staterelli a 8 grossi Stati.
Sebbene possa sembrare strano, la forma federativa, per quanto si sia mescolata nelle lotte civili, ha esercitato un influsso meschino nella stabilità delle condizioni politiche interne, giacchè nelle repubbliche federali, come in quelle unitarie, le lotte dei partiti si diffondevano largamente, quasi sempre, da una provincia nell'altra, essendo l'ultimo loro scopo, in ambedue le specie di Stati, il possesso del potere, che risiedeva sempre nella capitale.

Invece il decentramento ha, senza dubbio, contribuito ad una maggiore varietà della vita politica, fra i diversi gruppi. Infatti, sebbene le leggi statutarie, si conformassero, anzi tutto, a un modello scelto appositamente, quanto più a lungo un partito riusciva a mantenersi al potere, trasfondeva nelle leggi tanto più del proprio spirito, onde esso elaborava e integrava le massime fondamentali della costituzione.

Inoltre la repubblica federativa permetteva che certe idee particolari di un partito, come si erano elaborate attraverso una singolare evoluzione storica o una caratteristica economica anche nelle varie parti dei maggiori Stati, ottenessero diritto di cittadinanza o potessero finirsi di svolgere anche là dove non si trovavano in perfetto accordo con le idee, che avevano acquistato valore di norma per il Governo federale.
I principi fondamentali repubblicani di libertà, eguaglianza e fratellanza erano (anche se non venivano dovunque attuati nella pratica) comuni a tutti i giovani Stati; mentre, all'incontro, le opinioni oscillavano dal clericalismo ultraconservatore fino al liberalismo più progressivo.
In Quito, che, nell'età coloniale, era stata sempre una cittadella del clericalismo, lo spirito tradizionale giunse anche durante la repubblica a signoreggiare talmente gli animi, che sotto la presidenza di Garcia Moreno, nel 1863, si concluse un concordato con Roma, si affidò ai gesuiti tutta la pubblica istruzione, e si stabilì con una legge federale di porre il 10 % delle entrate dello Stato a disposizione del Papa.

Carattere rigidamente conservatore manifestavano le costituzioni di taluni Stati, appartenenti alla repubblica degli Stati Uniti della Colombia. Col mantenere l'ordine e la stabilità nella sua vita costituzionale il Cile, nei primi decenni della libertà, conseguì un benessere che suscitava l'invidia delle repubbliche sorelle. In generale, per l'America latina, incominciò, dopo la metà del secolo XIX, un periodo in cui nuovi elementi, essenzialmente di carattere economico-politico, ottennero un'importanza decisiva.

Anche fra i despoti del primo periodo della libertà, ce ne erano stati alcuni i quali comprendevano appieno il valore dell'agiatezza economica, quantunque si adoprassero, almeno i più, ad arricchire se stessi piuttosto che favorire l'universalità dei cittadini.

Il grande movimento industriale, svoltosi nel vecchio mondo, in cui gli Stati Uniti seppero, ben presto, assicurarsi notevole parte, non rimase senza efficacia sull'America latina, dove però mancavano, nella maggior parte degli Stati, le condizioni preliminari più necessarie per sfruttare i tesori naturali, sovrabbondanti quasi dovunque. Difatti la popolazione era scarsa; stava in un gradino, relativamente basso, di coltura, e disperdeva più volentieri le proprie forze nelle lotte partigiane, anzichè raccogliere per un energico lavoro.

Inoltre, essendo le giovani repubbliche povere, non potevano da sè stesse, quasi in nessun luogo, mettere assieme il capitale che all'inizio occorreva, senza nessun lucro immediato, investire in mezzi di comunicazione e in impianti industriali, se si dovevano sfruttare i tesori naturali. Le ricchezze, che i primi presidenti, quasi da per tutto, avevano saputo procurarsi, mediante l'incameramento dei beni ecclesiastici, e la confisca dei possessi della corona spagnola e dei suoi fautori, vennero presto, con una allegra dilapidazione, consumate.
I Governi, che si reggevano male in gambe, non potevano, per lo più, osare, per amore della propria esistenza, d'imporre tasse gravose, mentre le imposte indirette, dogane e dazi di consumo, dati i meschini bisogni degli indigeni, e la ristretta agiatezza dei residenti, non fruttavano in misura sufficente a permettere di adempiere ai grandi doveri della civiltà.

Così si svolse nell'America spagnola un lavorìo per attirare capitali stranieri e lavoratori stranieri con l'intento di innalzare le condizioni economiche del paese; ma furono operazioni finanziarie che servirono egregiamente le tendenze speculative del mercato europeo del danaro. In un tempo, relativamente brevissimo, il continente dell'America meridionale si coprì di una rete ferroviaria che, considerate le distanze e la densità della popolazione, non era per nulla disprezzabile. Lo spirito privato di impresa fu, il più energicamente possibile, appoggiato dai Governi, mentre questi, spesso con zelo precipitoso, si davano attorno a rimodernare le istituzioni statali, fortemente arretrate.

Una simile evoluzione operò, proprio di suo, nel promuovere una maggior stabilità di cose: la quale soltanto poteva procurare allo Stato il credito, assolutamente necessario, per adempiere ai suoi doveri economici, mentre solo in tempi tranquilli i notevoli capitali investiti erano in grado di esercitare la loro benefica efficacia.
D'altra parte, non poteva non accadere che la via del progresso non fosse tal volta interrotta da crisi economiche. La facilità, onde gli Stati americani riuscirono a negoziare prestiti nelle borse del vecchio mondo, e spesso ad ottenere denaro, in quantità molto maggiore dell'immediato bisogno, favoriva naturalmente un procedimento finanziario malsano, che doveva produrre tristi effetti, appena l'eccessivo accumulamento del capitale toccava il punto, dove ne cessava la produttività.

Ma le perdite, che simili crisi portavano con se, colpivano di gran lunga più duramente gli Europei, fornitori di fondi (e con essi i risparmiatori), che non i loro debitori transatlantici, i quali trascuravano, con scandalosa sfrontatezza, i propri obblighi, sapendo di trovar sempre di nuovo, nei tesori naturali dei loro paesi, una nuova fonte di ricchezza, dopo che una buona volta se ne era iniziato il razionale sfruttamento.

Già nel caso della coalizione, che, nel 1852, cagionò la caduta del Rosas in Argentina, esercitò una parte di primissimo ordine il bisogno di allontanare un elemento disturbatore della quiete per agevolare lo sviluppo della prosperità economica. Questi motivi apparvero ancor meglio nella guerra, che il Brasile, l'Uruguay e l'Argentina mossero, negli anni 1867-1870, contro il dittatore del Paraguay, il Lopez iunior, perchè questi, come prima di lui il Rosas, attizzava i dissidi interni negli Stati limitrofi per estendervi la propria influenza.

La guerra finì con la caduta del dittatore arrecando alla repubblica notevoli perdite. Questioni puramente economiche, nel 1879 cagionarono tra il Cile e le repubbliche alleate del Perù e della Bolivia una guerra, in cui il primo per la solida sua robustezza politica ed economica, conseguì splendidi risultati, avendogli la pace del 1851 procacciato nelle coste dei suoi vinti avversari un importante ampliamento territoriale, che ne rafforzò oltremodo la superiorità economica.

La vittoria fu, in parte, funesta al Cile, solo perchè la mutata situazione lo indusse ad allontanarsi dalla via di un progresso lento e stabile, per avvantaggiarsi, di un tratto, delle nuove sue condizioni, e perchè in uno Stato, fin allora amministrato conformemente ai principi civili, condusse al potere il partito militare, con tutte le tristi conseguenze congiunte, di solito, nell'America meridionale con il dominio dei generali fortunati.

Così il Cile fu sottoposto indubbiamente, nonostante il suo trionfo, a qualche regresso, a cui fin'oggi a stento è riuscito a riparare del tutto. Dalle differenze economiche provennero anche le lotte, in cui fu coinvolta la repubblica del Messico, sebbene esse prendessero, in un ambiente speciale, qual'era il messicano, un avviamento particolare, che ne nascondeva l'origine.

Con gli Stati Uniti il Messico, nel 1845, si trovò a contendere, perchè la provincia del Texas, staccatasi per motivi economici dalla madre patria, chiese di essere accolta nell'Unione nord-americana. Il Messico allora aveva appena iniziato il razionale sfruttamento dei suoi tesori naturali, e si trovava ingolfato nei garbugli delle lotte civili dittatorie.
La sua disfatta equivalse a un completo sconvolgimento dell'ordine; mentre la pace di Guadelupe Hidalgo, conclusa nel 1848, gli costò nel nord-ovest un territorio di enorme estensione, e gli fece perdere preziosi valori economici, come il solo nome della California basta a mostrarlo con sufficiente chiarezza.

Dalla sconfitta però derivò la volontà al riordinamento del paese, quantunque mancasse l'interna saldezza per incamminarlo immediatamente su vie promettitrici di buon successo, perdurando le lotte faziose, e rimanendo tuttavia la dittatura la forma governativa predominante.

Ma un dittatore illuminato, Benito Juarez, col proposito di proteggere il benessere nazionale contro la politica sfruttatrice di imprenditori stranieri, ne combattè gli intrighi sul terreno internazionale, attirando sulla sua patria una delle più gravi catastrofi che siano accadute nell'America latina. Le potenze straniere, Francia, Spagna e Inghilterra, si collegarono nel 1861 contro, il Messico, con l'intento di costringerlo ad adempiere ai suoi obblighi verso i loro sudditi. Ma la Francia proseguiva, di nascosto, piani politici più vasti, che essa poi palesò: invece che il ritiro delle sue alleate le lasciò completa libertà di azione.

Napoleone III, che con uno sguardo da vero statista, previde i pericoli, minaccianti l'intero assetto politico mondiale per la rapida evoluzione degli Stati Uniti verso la loro presente condizione di grande potenza, si accinse a contrapporre loro, sul suolo americano, uno Stato monarchico, fondato nel Messico, sotto la protezione delle armi francesi, l'Impero dell'arciduca Massimiliano di Austria.

Egli però nel paese, lacerato dalle fazioni, non riuscì a porre radici, quantunque vi volesse trapiantare, come base della sua monarchia, una autentica libertà civile; alla quale, pur dopo il predominio, per intere generazioni, delle forme repubblicane, il popolo messicano era immaturo. Di modo che, quando Napoleone, davanti al pericolo di un conflitto con gli Stati Uniti d'America, ritirò le sue truppe dal Messico, la monarchia liberale fu, in nome della libertà abbattuta da una partigiana dittatura militare, che insozzò il suo esordio commettendo un assassinio legale sulle persone dell'imprigionato Imperatore e dei suoi ultimi fedeli.
Massimiliano di Asburgo, condannato a morte da un tribunale di guerra, fu, il 19 giugno 1867, fucilato in Queretaro.

Senza dubbio hanno fatto molto per spingere avanti il Messico sulla via del progresso economico tanto Benito Yuarez, quanto il suo discepolo e successore Porfirio Diaz; il quale è riuscito addirittura a mantenervi, almeno in apparenza, un ordine e una stabilità politica, quasi sconosciuta sia in quel paese, sia in tutta l'America latina. Ma solo una dittatura energica, non mai rinunciante, per un minuto, dai mezzi violenti, ha reso possibile tutta quest'opera di riordinamento.

Quanto poi una simile dittatura possa ingannare sulla reale consistenza delle cose ce ne ha, offerto un esempio efficace il contemporaneo svolgimento del Venezuela, dove, fin dal 1870, sul fondamento di lotte partigiane, che, nella mancanza di cause legittime, si potevan del tutto paragonare con quelle del Messico, Antonio Guzman Bianco s'era arrogata una dittatura, che egli seppe, con larghezza di vedute, tesoreggiare per promuovere lo sviluppo economico dello Stato, da lui dominato.
Al Bianco, il quale si segnalò, in confronto dei suoi emuli, favorendo anche gli interessi spirituali, il Venezuela dovette, fino al 1890, un periodo di floridezza economica, che mise le basi per garantire un fecondo sviluppo ulteriore. Eppure son bastati pochi anni di rivoluzioni partigiane per trasformare quello Stato addirittura in uno dei più brutti esempi delle conseguenze, a cui tende l'ultimo stadio dell'evoluzione americana latina.

Nei tempi della dominazione coloniale i distretti più popolati erano spesso separati fra loro da vaste strisce di terra, scarsamente popolate, o del tutto disabitate. La conseguenza di ciò fu che i confini delle province coloniali, fin dove attraversavano tali regioni desertiche, non erano mai fissati con esattezza nei particolari, perchè nessuno aveva un serio interesse a farlo. Queste condizioni di cose rimasero immutate nel trasformarsi delle province coloniali in Stati autonomi, avendo le terre desertiche incominciato ad acquistare importanza solo quando si iniziò il razionale sfruttamento dei tesori naturali del paese, e si fece la scoperta che i territori, sino allora trascurati, contenevano, non di rado, valori economici considerevoli.

Così crebbe dovunque la propensione a fissare i confini, in modo che ognuna delle repubbliche interessate cercava, naturalmente, di appropriarsi la parte più grande possibile delle terre, fin allora negate, per estendere il proprio territorio. Nè i paesi, un tempo spagnoli, contendevano soltanto fra loro intorno alla frontiera, ma spesso anche con potenze europee, che avevano possedimenti coloniali, o con l'Impero brasiliano.
Ragionevolmente i governi esitavano, quasi sempre, a ricorrere alle armi per questioni di confini; vennero piuttosto ammettendo, generalmente, la massima che, in tutti i casi, quando i più interessati non potessero giungere ad un accordo amichevole, si convocasse un tribunale arbitrale, dinanzi al quale ognuno facesse valere, il più coscienziosamente possibile, le proprie pretese, e alla deliberazione di esso si assoggettasse, anche se non rispondeva alle speranze e ai desideri suoi.

Così a poco per volta, il suolo, pur negli angoli più remoti di quel continente, venne definitivamente spartito. Nel 1866 il Cile e la Bolivia, si accordarono circa le frontiere sull'oceano pacifico nel territorio di Mejillones; nel 1881 il Cile e l'Argentina nelle pretese reciproche nella Patagonia; con un trattato determinarono le proprie frontiere politiche il Perù e l'Equador nel 1894; l'Argentina e l'Uruguay nel 1900; il Brasile e la Bolivia nel 1903. Ma non sempre riuscì agli interessati di intendersi tra loro direttamente.

Nel 1895 cominciò l'era dei grandi tribunali arbitrali; la quale ha avuto molta importanza poichè, da un lato, ha condotto ad una esplorazione scientifica di ampie distese di territorio, scarsamente popolate, e, dall'altro, ha dato impulso ad elaborare il materiale documentario e cartografico per la storia delle terre dell'America meridionale, con una accuratezza, quale per puri motivi scientifici non si sarebbe per lungo tempo ancora sognata.

Una delle più notevoli di queste sentenze arbitrali fu quella che determinò la frontiera fra gli Stati Uniti del Venezuela e la Guyana britannica. Nel 1896 l'Inghilterra aveva fatto valere, senza ombra di riguardi, le sue pretese sul territorio conteso; aveva rigettato crudamente le proposte di mediazione del Venezuela, e occupato subito le terre in discussione. A questo punto gli Stati Uniti dell'America nordica si immischiarcno nella faccenda, e ottennero che anche l'Inghilterra si sottomettesse ad un tribunale arbitrale, che si sarebbe riunito a Parigi, e di cui lo Zar di Russia doveva nominare il presidente con veto decisivo.
La sentenza di questo tribunale assegnò, nel 1899, una gran parte del territorio, occupato dagl'Inglesi, ai Venezuelani, suscitando fra di essi una tempesta di manifestazioni entusiastiche di gratitudine per la nordica repubblica sorella. La sentenza arbitrale s'accordava, oltre a ciò, con le propensioni degli Stati Uniti a costituire delle repubbliche nordiche e meridionali del continente americano un'unione più stretta, e ad elaborare la dottrina del Monroe di modo che gli affari americani, anche dove toccavano interessi internazionali, dovessero sempre più regolarsi dagli Americani soltanto, con l'esclusione di tutte le potenze straniere.

Tutte queste cose fecero sì che il presidente del Venezuela, Cipriano Castro, collocato da una rivoluzione militare della consueta natura in un posto, ai cui doveri, sotto nessun rispetto, non era nè preparato, nè adatto, perdesse del tutto la bussola. Egli, mirando ormai, per partito preso, a soppiantare, anche sul terreno economico, tutti gli stranieri, cercò, con brutali violazioni del diritto, di confiscare per il Governo o per imprenditori indigeni i numerosi, costosi stabilimenti industriali, che si esercitavano nel Venezuela con capitali stranieri. Quando la Germania, l'Inghilterra e la Francia risposero, per proteggere i loro sudditi, con un blocco comune dei porti venezuelani, egli accondiscese veramente a sottoporre le pretese giuridiche straniere ad un tribunale arbitrale. Ma, siccome l'Unione dell'America nordica, anche in questo caso, lasciò intravedere una manifesta benevolenza per la repubblica sorella dell'America meridionale, il Castro si sottrasse con ogni sorta di futili scappatoie, agli obblighi, che la sentenza arbitrale gli aveva imposto, e finalmente arrivò, come per scherno, a rivolgere addirittura contro gli Stati Uniti quel medesimo sistema di soppressione delle imprese straniere.

Per conferire l'apparenza della giustizia a questo atteggiamento, contrario al diritto delle genti, il Venezuela si dette a sostenere l'opinione che la seconda conferenza d'arbitrato internazionale dell'Aia dovesse accogliere il principio che non fosse lecito ad alcun Stato europeo d'appoggiare con provvedimenti militari, le pretese finanziarie dei suoi sudditi contro una repubblica americana. Quantunque fra le repubbliche dell'America latina non ve ne fosse forse nessuna, che avrebbe osato di seguire l'esempio del Venezuela nella violazione dei diritti stranieri, riusciva a tutte, quasi senza eccezione oltremodo simpatica una massima di diritto internazionale, che avrebbe scemata la loro sensibilissima dipendenza economica dai popoli di civiltà superiore del vecchio mondo.

L'America latina si palesava, è vero, dinanzi agli adescamenti della sorella dell'America nordica, quasi più scettica che dinanzi a tutte le proposte concilianti del vecchio mondo; ma l'allettamento d'essere autorizzata dal diritto internazionale a opprimere il capitale straniero le apparve, senz'altro, così seducente che essa assecondò la proposta; sebbene provenisse da un Governo, che non godeva in America di nessunissima considerazione.
Che quella proposta, pur nondimeno, venisse rigettata era prevedibile; ma essa, tornando sul tappeto delle future conferenze della pace, non scomparirà più sicuramente, dal catechismo politico delle repubbliche dell'America meridionale, come la dottrina del Monroe da quello della repubblica nordica.

Nel Brasile, nonostante il contorno degli Stati. repubblicani, si mantenne, durante la più gran parte del secolo XIX, la monarchia. Al fondatore della indipendenza brasiliana, Pedro l, era successo, nell'anno 1831, l'omonimo suo figlio; sotto il quale, illuminato e rigidamente costituzionale, il Brasile godette di una maggior libertà civile molto di più dei fratelli Stati latini. Ma essendo per i repubblicani dell'America meridionale la sostanza meno importante della forma, costoro approfittarono d'un conflitto intorno all'emancipazione degli schiavi per porre la Corona in contrasto con l'apparente maggioranza del popolo, contrasto che doveva dar loro ameno una parvenza di giustificazione per abbattere la monarchia, e, nel 1889, trasformare anche il Brasile in una repubblica federale.

L'immediata conseguenza di ciò fu un periodo di ostinate lotte civili, in cui anche la repubblica brasiliana imparò a conoscere i vantaggi della dittatura militare, rovinò le proprie finanze e vide introdursi, in tutti i rami dell'amministrazione, la caccia agl'impieghi. La libertà civile, anche nel Brasile, fu attuata secondo intendimenti nazionalistici; del che incominciarono, come nel Venezuela, a risentire gli effetti le imprese di origine straniera.

Oltre a ciò, il Brasile si è poi accostato alla lega delle repubbliche americane contro il Cile, arrecando così quasi una minaccia alla pace internazionale nell'America del sud. Per quanto la vittoria sul Perù e sulla Bolivia sia stata tutt'altro che una fortuna per l'evoluzicne interna del Cile, essa gli procacciò, all'estero, una grande ammirazione, fortemente mista di livore.
La coscienza della sua potenza militare però fece assumere al Cile, di fronte agli altri Stati, un contegno poco conciliante. Poiché il Perù non era affatto in grado di procurarsi l'indennità, che, eventualmente, avrebbe dovuto pagare per riacquistare Tacna ed Arica, il Cile non fece affatto compiere il plebiscito, stipulato nel trattato.
Con la stessa rudezza si comportò verso l'Argentina nelle trattative riguardo ai confini nelle Ande, trattative, che, perfino dopo una sentenza arbitrale del Re d'Inghilterra nell'anno 1896, stentarono a giungere ad una definitiva conclusione.

Poco mancò che fra ambedue gli Stati si arrivasse nel 1900 ad una guerra, in previsione della quale l'Argentina concluse un'alleanza col Brasile, col Perù e con la Bolivia; fortunatamente da tutte e due le parti prevalse la calma riflessione sul bollore del momento. La frontiera andina, tanto contesa, fu, con un trattato del 1903, alla fine, così regolata da risparmiare la puntigliosità di qua e di là dello spartiacque, evitandosi una guerra, che avrebbe, con sicurezza, condotto, in tutti i paesi interessati, a un crollo violento dei poteri esistenti.
I sospetti delle repubbliche latine verso gli Stati Uniti dell'America nordica sono indubbiamente troppo ben fondati.

Che i congressi panamericani, con le loro premure per un più stretto accordo, tendessero, in sostanza, soltanto a porre gli Stati dell'America meridionale, con la soppressione della concorrenza europea, sotto la dipendenza economica dell'Unione, e a conquistare alla sua fiorente industria nuovi sbocchi, era così evidente che non poteva rimanere nascosto agli Stati meridionali dietro il paravento di tutti gli adescanti miraggi, che vi andavano congiunti.

L'Unione aveva ostentato la propria superiorità in troppe occasioni, e aveva mostrato troppo poco rispetto ai diritti stranieri, se questi si trovavano in contrasto con i suoi interessi, perchè il Mezzogiorno se ne potesse dimenticare. Che cosa esso avesse a sperare dalla corrente imperialistica, che s'era fatta fortissima nell'Unione, glielo insegnavano due esempi. Che la sollevazione dei Cubani contro il dominio spagnolo fosse continuamente aizzata dall'Unione, e sorretta con denaro nordamericano non era davvero un segreto.

Le grandi Antille avevano già nel passato attirata, più volte, la cupidigia degli Americani nordici: quando la Spagna., nel 1897, volle, anche col pericolo di distruggerne, per il momento, il valore economico, costringere di nuovo all'obbedienza l'isola di Cuba, l'Unione si fece avanti in favore degli insorti e chiese per essi, invece dell'assoggettamento, autonomia amministrativa e Governo costituzionale.
Ma allorchè, mediante l'esaudimento della sua domanda, pareva sfuggirle l'occasione d'immischiarsene, essa mosse una guerra, senza motivo alcuno, dopo la fine vittoriosa della quale obbligò la Spagna a rinunziare a Cuba, a Portorico e anche a qualcos'altro.
Le promesse ai Cubani eran state troppo precise per fare, senz'altro, della loro isola, come di Portorico, una colonia dell'Unione; quindi Cuba riuscì , sotto il protettorato nordamericano, ordinare in una repubblica, in apparenza autonoma. Ma perfino questa parvenza di autonomia non fu di lunga durata.

Presto l'incertezza politica minacciò di danneggiare gl'interessi dell'Unione, questa ostentò d'intervenire quale mediatrice, e pose l'isola sotto la diretta amministrazione nordamericana. Quante volte possa ripetersi questo fatto poco importa, essendo indubitabile che la faccenda finirà, prima o poi, con l'annessione di Cuba.

Ancor più apertamente un altro evento additò alle repubbliche dell'America meridionale il pericolo, che le minacciava dall'ultra potente settentrione. Finchè la Francia sperperava le sue forze nella costruzione del canale del Panama, l'Unione aveva, col favorire il disegno d'un canale interoceanico attraverso il mar di Nicaragua, cercato di frapporre ostacoli all'impresa francese.

Quando poi la concessione della compagnia francese sembrava fallire, l'Unione seppe impadronirsene, ed intavolò trattative con gli Stati Uniti della Colombia sul prolungamento della concessione stessa. Che la Colombia, nelle mutate condizioni economiche, cercasse di ricavare il prezzo più elevato possibile da un offerente così danaroso, come è l'Unione, era naturale, sebbene, forse, non fosse compatibile con i riguardi del traffico internazionale che essa conducesse in lungo le trattative; ma l'Unione commise certo una aperta violazione del diritto, mettendo i ribelli del Panama in grado di sollevarsi contro la repubblica federale, e ponendo, col precipitoso riconoscimento dello Stato insorto, i Colombiani dinanzi all'alternativa d'una guerra.

L'apprensione d'usurpazioni nord americane ha risvegliato nell'America latina anche propensioni etniche, che han condotto ad un riavvicinamento alla Spagna, la cui incapacità ad offrire un appoggio qualsiasi agli Stati, derivati da lei, è, senza dubbio, manifesta, mentre fra le sorelle latine domina tuttavia troppo poca sincerità di sentimenti amichevoli, perchè si sia portati a nutrire grandi speranze nel loro accordo.

Quei Governi sono tutti, dal primo all'ultimo, troppo deboli, possono troppo poco contare su una seria coscienza nazionale del popolo, sono quasi, senz'eccezione, economicamente troppo inferiori per poter imprendere una seria lotta contro l'inframmettente America nordica; anzi vedranno, in ogni caso, crescere la propria dipendenza dal grande Stato settentrionale nel prossimo avvenire.
Se gli Stati Uniti finiranno con l'esercitare un tale predominio sul Mezzogiorno da minacciarne sul serio l'indipendenza, o se saranno da crisi interne arrestati nella loro politica di sconfinata espansione, e impossibile, fin d'ora, prevedere. Ma una cosa pare sicura che cioè occorrerà si rafforzi potentemente il forte sentimento civile repubblicano nell'America latina, se essa vorrà, nella politica mondiale, fare quella parte, a cui potrebbe pretendere per il territorio e per le ricchezze naturali.

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NOTE

IL CONTINENTE

Ha una superficie di 17.792.000 kmq. (l'Europa fino agli Eurali ne ha 10.500.000)
GLI STATI attuali
Brasile 8.511.000 kmq. (ca. 28 volte l'Italia
Argentina 2.776.385 kmq ( ca. 9 volte l'Italia)
Venezuela 912.000 kmq.
Colombia 1.138.000 kmq.
Perù 1285.000 kmq.
Bolivia 1098.000 kmq.
Ecuador 263.000 kmq.
Guyana 214.000 kmq.
Uruguay 187.000 kmq.
Cile 741.000 kmq.
Paraguay 406.000 kmq.
Panama 76.000 kmq.

NOTE RIGUARDANTI L'ITALIA

BRASILE - Costituisce il più grande Stato del Sud-America e uno dei più vasti del mondo. Il suo nome deriva dal portoghese "braza" nome di un caratteristico legname rossastro che i primi colonizzatori portarono in Europa.
La maggioranza della popolazione è costituita da bianchi, specie Portoghesi ed Italiani, e di Meticci. In minor nulero Indiani e Mulatti.
Gli italiani in Brasile nel 1927 (prendiamo queste note, dal Compendio di Geografia dell'epoca - cioè quando in Italia si era ormai arrestata la ondata di migrazione di italiani oltreoceano) erano 1.840.000.
Oggi conta circa 175.000.000 di abitanti e i discendenti di famiglie italiane ammontano a circa 20.000.000.

ARGENTINA - Popolazione costituita da bianchi discendenti dagli antichi coloni spagnoli e portoghesi , da Meticci e Indiani in piccola mionoranza, e più tardi da Italiani che sempre nel 1927 ammontavano a circa 1.797.000 di cui 1.506.000 erano nati in Italia.

TRE CURIOSI ARTICOLI RIGUARDANTI L'IMMIGRAZIONE ITALIANA
APPARSO SU "LA STAMPA" DI TORINO NEL 1935

VIGNETI E CANTINE ITALIANE A MENDOZA.

Mi sono svegliato stamattina pensando alle rivoluzioni cilene; perchè anch'io ho dormito proprio nell'albergo del quale mi hanno parlato ieri i compagni di viaggio nel treno delle Ande; qui venivano i generali rivoluzionari e i presidenti spodestati e in questo albergo dì Mendoza, aperto e arioso come una fattoria di campagna, trovavano il primo riposo e il primo ristoro dopo le fiere giornate di Santiago.
Ma ora non c'è più nessuno; é passato anche il tempo dei sollevamenti e dei colpi di Stato; e dalle Ande cilene non viene ormai che l'aria fresca dell'ultima neve primaverile. Il grande albergo é quasi vuoto. Silenzio. Crisi.
Mi affaccio alla finestra e ho ancora davanti la muraglia delle Ande; il rovescio della Cordigliera che si vede dal Cile; non c'è più l'Aconcagua, nascosto fra le nuvole, ma c'è il Tupungato, c'è il Torlosa, c'è il Cerro del Plata; su per giù lo stesso paesaggio da vertigini, le stesse cime fra i sei e i settemila metri; e, sotto il bianco della neve, il grigio della terra arida e sassosa che frana verso la valle: un po' di verde, ma non tanto; pochi alberi anche sulle colline che fanno da scenario alla città, ma in compenso moltissimi cactus, prepotenti, selvaggi, polverosi, allineati in discesa come soldati in grigioverde disposti per le grandi manovre.
Dall'altra parte, la gran pianura coltivata a vigna che si perde all'orizzonte fin dove comincia la pampa; la ricchezza della provincia di Mendoza, la cantina della nazione; paesaggio aperto, ampio, solare; ora le viti basse, ragnatele grigie sulla serra grigia, buttano appena i primi tralci: ma fra un mese, quando coi Morti qui sarà il pieno della primavera, la campagna splenderà al sole tutta verde, fino alle prime balze nude e rocciose delle Ande.
Per prima cosa mi hanno accompagnato a vedere il Cerro de la Gloria; Gloria con lettera maiuscola, alla romantica, come piace ancora alla gente del Sud-America; perché non bisogna dimenticare che Mendoza é sì città di agricoltori e di vinai, ma anche città di valorosi soldati e di epiche battaglie; la spedizione delle Ande, capitanata dal generale San Martin, é partita di qui; la pagina più eroica nella storia dell'indipendenza sudamericana, ai tempi della gran fiammata rivoluzionaria che portò i suoi fuochi e le sue bandiere fino ai monti ed alle valli del Cile e del Perù, é stata scritta fra i vigneti e le fattorie di Mendoza, ai piedi di queste montagne, che sono fra le più alte del Mondo: Annibale e Napoleone sulle Alpi, San Martin sulle Ande, dicono gli Argentini. Non c'è città della Repubblica, per piccola che sia, che non abbia il suo monumento al Libertador.
Mendoza, privilegiata, ha avuto il monumento più bello e più grandioso, opera di Italiani, e l'ha messo sul colle che domina la città ai piedi delle Ande; il gruppo statuario, piantato nella roccia, é diventato la cima del Cerro della Gloria.
La vigna è ancora il meglio che c'è da vedere qui a Mendoza; non chiedete altre meraviglie, non cercate altri svaghi; lo stemma della città dovrebbe anzi avere, al posto del solito berretto frigio argentino e delle due mani unite nella fraterna stretta, una gran botte di vino con Bacco coronato seduto sopra a cavalcioni.
Si parla di questa terra come della California del Sud-America; si dice persino che come si sono trovate le vene d'acqua per far crescere prosperosi i vigneti, così si troveranno anche le vene d'oro e d'argento nel misterioso sottosuolo delle Ande; ma per ora, con la sola ricchezza modesta della vite, si tratta, se mai, di una California un po' più casalinga, di una California serena e ottimista, che potrebbe inondare con fiumi di vino rosso tutta l'Argentina. La produzione di quest'anno, per esempio, é stata di cinque milioni e seicentomila ettolitri; le cantine sono piene, le pilette, enormi vasche di cemento, traboccano; le botti e le cube non bastano più. Se trasportare il vino fosse altrettanto facile quanto produrlo, Mendoza sarebbe davvero il paese della cuccagna e nessun qui parlerebbe di crisi; ma il guaio é che l'unica ferrovia che unisce la città andina alle coste dell'Atlantico mille chilometri attraverso la pampa - é carissima; tanto cara, che costa di più trasportare il vino da Mendoza a Buenos Aires che importarlo dall'Europa; l'impresa che esercisce la linea é inglese e nessuno a Londra si preoccupa del costo del vino di Mendoza. I signori azionisti di lassù, com'è naturale, non si preoccupano che, degli alti dividendi e non hanno nessuna intenzione di ribassare le tariffe.
Con tutto questo, i bravi Mendozini non si spaventano, e sperano sempre in tempi migliori; se il mestiere va male, se il commercio prepara improvvisi tradimenti, la terra non tradisce mai. Quel che importa è credere nel proprio lavoro, tirare avanti con sereno ottimismo, non perdere mai la fiducia. Qui del resto le fortune sono costate tutte care, nessuno ha mai trovato l'oro per miracolo com'è accaduto in altri paesi dell'America e anche le difficoltà della vita non sono quindi mai delle sorprese.
Chiedete poi i nomi delle più importanti bodègas (cantine) e sentirete. che son quasi tutti Italiani: Giol, Gargantini, Tomba, Filippini, Piccione, Togo, Gabrielli, Cavagnaro. Fin da quando cominciò in questa regione la coltura della vite, gli operai italiani furono i più ricercati, non solo per la loro sobrietà e per la loro serietà, ma soprattutto, come affermano gli stessi Francesi che qui sono i nostri maggiori concorrenti, per la loro capacità nei lavori di fabbricazione dei vini.
Il proprietario delle bodègas Giol é ora uno dei più ricchi produttori della provincia; il vino delle sue cantine viene trasportato direttamente alla stazione per mezzo di un grosso tubo di caucciù che corre per tre chilometri lungo un viale di pioppi; i suoi vigneti occupano migliaia di ettari, e l'organizzazione delle sue bodègas é così perfetta che il vino corre a torrenti dalle pigiatrici alle cube, dai tini alle botti come se fosse aspirato da enormi bronchi. Il vecchio Giol, ch'era venuto qui tanti anni fa da povero emigrante senza un quattrino, si è ora ritirato in Italia; l'azienda va avanti lo stesso sotto la guida dei suoi figlioli e lui la dirige di lontano coi consigli che gli son suggeriti dalla lunga esperienza.
Un'altra grossa fortuna é quella dei Tomba di Recoaro. Quando il primo Tomba arrivò in Argentina non aveva in tasca che trentatrè franchi; trovò impiego presso un suo zio che aveva una modesta officina, ma poco dopo lo lasciò e volle tentare da solo la ventura; comperò un carretto e si mise a fare il venditore ambulante nell'interno della regione, fra i cantieri della linea ferroviaria del Pacifico ch'era allora in costruzione. Passo passo seguì la strada ferrata che andava verso le Ande e quando arrivò a Mendoza dopo un paio d'anni, aveva, già messo da parte circa centomila lire. Poiché la muraglia delle Ande gli impediva ormai di proseguire, aprì un negozio di commestibili in città e fece venire dall'Italia anche il padre ed i fratelli. Visto poi che la terra era buona, cominciò a coltivar delle viti e a fabbricare del vino; e le cose andarono così bene che di lì a poco si trovò milionario.

Qualche anno prima della guerra, volle ritornare in Italia per rivedere il suo paese e per ritrovare i suoi amici; partì in cabina di lusso, da gran signore; sognava già di far restare tutti a bocca aperta coi suoi milioni, ma la morte lo colpì a tradimento in alto mare prima ancora ch'egli potesse toccar le rive della sua patria. Le cantine Tomba sono ora gestite dai suoi eredi e, almeno fino a qualche anno fa, rendevano parecchi milioni di lire all'anno.
Lavoratori tenaci, coraggiosi, intelligenti, ma anche di buona razza gl'Italiani trapiantati a Mendoza; i Furlotti, per esempio, che possiedono uno dei migliori vigneti, sono in undici fratelli.
I dieci fratelli Filippini seguono i Furlotti a ruota; sono anch'essi tra i più ricchi produttori di vini della provincia; non si spaventano neppure della crisi, del basso costo e delle alte tariffe ferroviarie; i loro vigneti sono fra i più belli di tutta la regione. Ora stanno coltivando anche delle uve di alta fantasia, che possano resistere ai viaggi, per mandarle a Nuova York e a Londra; con le stagioni capovolte, i signoroni di lassù avranno così uva fresca in tavola anche a primavera; e uva di gran lusso, proprio da bocche delicate, perché hanno costruito apposta degli enormi pergolati di cemento armato che sembrano tirati con la riga e col compasso; chilometri e chilometri di belle viti, aggraziate e diligenti, da cui penderanno fra qualche mese i più bei grappoli di tutta Mendoza; tutti
uguali, studiati anche nella grossezza degli acini e nella colorazione, che dovrà essere uniforme per far venir meglio l'acquolina in bocca alle miss di Londra ed alle reginette di Nuova York.
- Cosa vuole, - mi dice uno dei fratelli Filippini che mi accompagna in giro per i suoi terreni - se i tempi sono difficili, bisogna arrangiarsi. Ma chi ha fiducia nella terra, non sbaglia mai. Vede quella vigna? L'ha piantata mio nonno quarantatrè anni fa ed è ancora in buone condizioni. Creda pure che se non ci stanchiamo noi, la terra non si stanca mai. Ma bisogna volerle bene.
ETTORE DE ZUANI.
(Da La Stampa" - 1935).

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IN FERROVIA SULLE ANDE A 3300 metri. -

La ferrovia transandina, che unisce il Cile all'Argentina attraverso la Cordigliera, è una delle più alte del Mondo; e indubbiamente è anche la più cara del Mondo: da Santiago a Buenos Aires sono 1450 chilometri ed il biglietto in prima classe (ma non c'è che prima e seconda) costa, al cambio ufficiale, 2600 lire. Alle quali poi il buon Cileno che vuol andare a vedere un po' di Mondo di là dalla sua muraglia, nella metropoli del Sud-America, deve aggiungere- 400 lire per il visto sul passaporto e un altro centinaio per qualche pasto in vettura-ristorante. Facciamo insomma, fra andata e ritorno, quasi 6000 lire.
E notate che questa è l'unica porta aperta nella Cordigliera delle Ande; a meno che non si voglia fare il giro per lo stretto di Magellano, o entrare in territorio argentino attraverso la regione dei laghi del sud (ma allora c'è da stare in viaggio quindici giorni); bisogna passare di qui, arrampicarsi col trenino a cremagliera fino a 3500 metri e poi discendere a Mendoza, dove attende l'espresso del Gran Oeste Argentino che, quello sì, fila a ottanta all'ora attraverso la pampa, diritto fino a Buenos Aires.
Treno di lusso, ma la colpa è della montagna se costa caro, se ci hanno messo quarant'anni per costruire l'arditissima linea fra le nevi eterne, per portare le rotaie sugli orli dei precipizi, sugli spigoli delle cime, dentro gole oscure spalancate su strapiombi di tremila metri. Questo non è paese da ferrovie; è paese da condor, da puma e da guanacos, e se il signore vuol andar lassù in pullmann e in vettura ristorante, è anche giusto che paghi cara la sua pacifica vittoria sulla montagna; per ogni chilometro è come se le rotaie fossero d'oro, e ogni anno bisogna ricominciare da capo la lotta contro gli elementi; la neve cade per intere settimane, seppellisce tutto, distrugge gallerie e ripari, e un vero esercito di guardiani, di spalatori e di sciatori deve di continuo dare l'assalto alla montagna, sfidare tormente e valanghe per aprire il passo al trenino internazionale che una volta alla settimana vien su dalle rive del Pacifico per ridiscendere fra i vigneti di Mendoza.
L'altr'anno, un po' per le forti nevicate e un po' anche per ragioni di economia, il traffico venne interrotto per sei mesi; si tornò alle mule, pareva anzi che la linea dovesse venire abbandonata, e fu soltanto dopo lunghe trattative fra i due Governi e soprattutto per le insistenze dei Cileni, che il costosissimo servizio fu ripreso col tornar della stagione estiva.
La montagna incomincia a Los Andes. Abbiamo lasciato la valle dell'Aconcagua a Llai-Liai e ora siamo ai piedi della gran muraglia di roccia e di neve. Si cambia treno, si cambia scartamento e si saluta l'amico Caniggia. Chi è l'amico Caniggia? È l'uomo delle Ande, è quello che sa tutto della ferrovia andina; piemontese, nativo di Alessandria, è qui da trent'anni e conosce la Cordigliera come forse pochi Cileni; se l'è passata e ripassata migliaia di volte, a piedi, con gli sci, a dorso di mula e in treno. Quando nel 1910 fu inaugurata la nuova linea, lui si assunse il servizio della vettura-ristorante, e da allora e per merito suo la cucina italiana si è fatta sempre onore anche sulle Ande, a 3500 metri; ora ha ceduto le armi a suo genero, un bravo giovanotto pure piemontese cresciuto ed allevato alla sua scuola, e lui si è costruito un albergo a Los Andes; ma tutte le volte che parte il transandino lui è lì che dirige il servizio, premuroso, sollecito, informato, come se il treno fosse cosa sua e tutti i viaggiatori fossero suoi ospiti; può darsi che manchi il capostazione, ma Caniggia non manca mai.
Amico di tutti; non si entra e non si esce dal Cile senza il visto di Caniggia; se c'è qualche personaggio importante, è lui che gli va incontro alla frontiera; e se poi son viaggiatori ordinari, devono almeno gustare i suoi eccellenti spaghetti al sugo.
Appena fuori della stazione di Los Andes si lascia il verde dei prati e comincia la montagna nuda e grigia; il treno, che è a vapore fino a Rio Bianco, va su a fatica, sbuffando, come se montasse dei gradini; il paesaggio è duro, violento, selvaggio; non si vedono che lembi di cielo d'un chiaro azzurro invernale, tagliati fra le gole nere e i precipizi, in uno scenario impressionante da cataclisma e da diluvio universale.
Juncal, Portillo: tocchiamo i tremila metri; il treno si arrampica fra trincee di neve mordendo con la ruota dentata la rotaia della cremagliera. strisciando sulle curve, sfiorando appena i labbri delle bianche cornici; il vento fischia, ulula, si abbatte sui ghiacciai luccicanti, precipita risucchiato nelle gole profonde con cupo fragore; e giù al piano si stende, lieve, come bambagia, una gran coltre di nuvole.
Non un albero, non un filo d'erba, non un fiore; le piccole stazioni, al riparo delle rocce perché le valanghe non le portino va, sembrano rifugi; si affacciano i guardiani, incappucciati nei passamontagna, intabarrati nei ponchos come i banditi dei romanzi, salutano con la bandierina verde e poi tornano davanti al focolare; per una settimana, se non soffia la tormenta, non c'é più niente da fare. A Caracoles, ultima stazione cilena, una vecchia tutta curva e rinsecchita, gialla come se avesse l'itterizia, ci offre delle arance: « Por la puna (= mal di montagna), senor, por la puna ». La parola puna é impressionante; le donne specialmente ne hanno una gran paura; le nostre compagne di viaggio, infatti, sono pallide e languide; qualcuna a Los Andes ha preso l'adrenalina; non si muovono, se ne stanno rincantucciate presso i finestrini, con gli occhi fissi sull'abbagliante candore della neve, fiutano sali e dicono che hanno il corazòn in gola.
Per fortuna, a scuoterci dal nostro torpore, ecco il genero di Caniggia che viene ad avvisarci che la colazione é pronta; e a tavola, con l'allegria degli spaghetti fumanti e del vino rosso a 3500 metri, nessuno pensa più neanche alla puna.
Caracoles è l'ultima stazione cilena; ancora un gradino, l'immancabile galleria di confine, sotto la quale una campanella ci avverte quando passiamo la frontiera, e poi entriamo in territorio argentino. Passaporti alla mano; scendono i poliziotti cileni con l'uniforme kaki e salgono i poliziotti argentini con l'uniforme azzurra; visita doganale, cambio di moneta; un dramma per i poveri Cileni; per avere un peso argentino devono darne dieci dei loro. Non si parla più della puna, perché ormai ci si avvia verso il piano, ma si parla della crisi, della melanconia del cambio ufficiale e della tragedia del mercato libero, che qui si chiama « borsa nera », dove si vendono i soldi come roba usata; e il povero peso cileno, che a casa sua fa ancora discreta figura, modesto, ma con decoro, quando arriva all'estero é così sciupato che più nessuno lo vuole.
Punta Vacas, Zanjòn Amarillo; gli ultimi tappetti di neve e finalmente i primi prati verdi con le mucche al pascolo e, laggiù, nella valle di Cacheuta, i vigneti di Mendoza.
ETTORE DE ZUANI.
(Da "La Stampa" 1935

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LA CITTA' DEI RE : Lima. -

Siamo in piena America spagnuola, là dove la tre volte secolare dominazione dei possenti re di Castiglia, da Francisco Pizarro e da Diego Almagro stabilita rispettivamente nel Perù e nel Cile, ha lasciato orma indelebile. «El Callao » fu porto celebre fin dai primordi della conquista del Perù, l'antico Impero degli Incas, i tragici «Figli del Sole»: e l'antica importanza il porto e la città, che annovera 77.000 abitanti, hanno sempre conservato e tutto oggi conservano. Per esso s'incanala gran parte del commercio della Repubblica, in via d'intenso sfruttamento economico da che più e meglio se ne sono conosciute le enormi ricchezze; ed in esso trova il naturale sbocco al mare la capitale dello Stato, distante dal Callao solo quattordici chilometri.
Lima, la città de « los Reyes », fondata da Francisco Pizarro, il conquistatore del Perù, nel 1535, fu per quasi tre secoli la principale città dell'America del Sud, poiché in essa e nel Vicereame appunto del Perù, gli Spagnoli avevano stabilito la base della loro potenza, materiale e spirituale. Oggi essa conserva ancora l'antica austera imponenza, la classica impronta di città regale. La cattedrale ancor troneggia superba sui vicini e pur imponenti palazzi, nei quali il barocco sfoggia tutto il fasto e tutto l'eccesso dei suoi ornamenti. Vastissime le piazze e delizioso «passeggio» l'Alameda. Ridentissimi poi i dintorni, tutti ville e profumati giardini, lungo le dolci sponde del fiume Rimac, che offre in più punti un paesaggio degno d'un'Arcadia tropicale. Ed i 316.000 abitanti della città (quasi 400 mila coi piccoli centri aggregati) san prendere la vita in letizia, come all'epoca dei cavalieri piumati, « senza macchia e senza pauma »...
CARLO ANCELUCCI.

FINE

Riprenderemo più avanti, in altri periodi,
lo sviluppo e le influenze del colonialismo all'inizio del '900

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