L’EMIGRAZIONE VENETA

 

(Bertazzolo Nicola)

“l’emigrazione, specie quella transoceanica,
fu il grande fatto rivoluzionario delle campagne venete negli anni neri dell’economia italiana”.

Gabriele De Rosa ha definito così l’emigrazione transoceanica in una delle sue opere, ed effettivamente la partenza di intere famiglie verso il Brasile o gli Stati Uniti fu un fatto epocale nella pietrificata società rurale italiana di fine ‘800.

Ma se l’emigrazione oltreoceano rappresenta un fatto nuovo, da secoli le popolazioni alpine emigravano all’estero. L’emigrazione in questo caso aveva carattere temporaneo o stagionale, e si dirigeva soprattutto verso la Germania e l’Austria-Ungheria. Naturalmente non emigravano intere famiglie ma solo i capifamiglia o i figli giovani che in questo modo contribuivano a rimpolpare le poche entrate che derivavano dall’agricoltura e dall’allevamento.

Nell’Ottocento gli aspiranti lavoratori erano ingaggiati da agenti delle grandi imprese edilizie e industriali dell’Europa Centrale, che cercavano manodopera per le loro fabbriche e cantieri in quanto in quei luoghi vi era da sempre carenza di braccia. Dopo molte ore di viaggio in treno, i nostri connazionali arrivavano a Vienna, da dove sarebbero partiti per la Boemia, l’Ungheria, la Moravia e la Germania.

Le condizioni di lavoro erano molto pesanti: dalle 6 del mattino alle 6 della sera senza sosta, esclusa la pausa pranzo, per una paga di 12 fiorini lordi al giorno, detratti quindi il costo del vitto, dell’alloggio e del viaggio. Controllati da sorveglianti e puniti per ogni minima disattenzione, gli italiani erano esposti a ogni genere di pericoli: gli incidenti nei luoghi di lavoro erano frequenti, e spesso ci scappava il morto.

I datori di lavoro, che sapevano tutto questo, non si mossero per evitare il ripetersi degli incidenti e per migliorare le condizioni di vita dei loro dipendenti. Inoltre, gli stessi emigranti non essendo a conoscenza delle leggi sociali vigenti in Austria e in Germania (peraltro molto avanzate, visto che prevedevano pensioni di invalidità) non erano messi in condizione di rivendicare qualsivoglia miglioramento delle loro condizioni.

Verso la fine dell’Ottocento vi furono comunque i primi tentativi, da parte degli italiani, di ottenere migliori condizioni salariali e sociali, in concomitanza con il diffondersi della dottrina socialista e cooperativistica; come risposta gli industriali rispedirono in Italia i capi delle leghe operaie e, in seguito, smisero di cercare lavoratori nel nostro Paese preferendo attingere in altre regioni d’Europa, ad esempio in Bosnia, Galizia e Polonia.

Da questo momento in poi, quindi, si chiude per gli italiani la fase dell’emigrazione temporanea A partire dagli anni ’70 dell’Ottocento la quota di emigrati temporanei inizierà a calare, fino al 1876 quando l’emigrazione transoceanica supererà l’emigrazione temporanea.

Essendosi ridotto il numero di lavoratori richiesti nei cantieri del Centro Europa, molte famiglie di braccianti decisero di emigrare in America latina (soprattutto in Brasile e in Argentina), perché la situazione economica era grave e l’eccessivo peso demografico iniziava a farsi sentire.

Con il 1876 erano cambiate infatti alcune cose: innanzitutto la Destra “storica” aveva ceduto il posto al governo alla Sinistra “storica”, che proponeva un programma di riforme sociali allo scopo di sollevare il paese da una situazione di arretratezza, abolendo le imposte che più gravavano sulle masse rurali (ad esempio l’odiata imposta sul macinato); negli anni Ottanta invece la politica economica intrapresa da Crispi aveva portato all’inizio della “guerra doganale” con la Francia, che in quegli anni rappresentava il mercato di sbocco principale dei nostri prodotti, principalmente grano, olio, olive. I braccianti agricoli, vista la situazione di crisi, rischiavano più di qualunque altra classe sociale di precipitare nella miseria. Se poi contiamo come questa fascia sociale fosse indebitata fino al collo con gli usurai, risulta facile capire perché così tanta gente partì con le loro famiglie da Genova o da Napoli per fare fortuna nelle pampas argentine, a San Paolo o nel New England.

Il tipico emigrante italiano dell’epoca era un bracciante o un piccolo coltivatore privo di preparazione professionale, semianalfabeta, che spesso non aveva mai visto altri posti se non il suo villaggio e quindi facile vittima di truffe, che abbondarono grazie anche alla latitanza di Roma, che non aveva provveduto a regolamentare la materia emigrazione.

I veneti sono i primi in Italia a scegliere la via dell’emigrazione: già negli anni ’70 dell’Ottocento i bastimenti partivano da Genova con il loro carico di contadini destinati a Buenos Aires o San Paolo. Dopo l’ondata migratoria dall’Irlanda e dalla Germania, toccava in questo periodo agli italiani, ai serbi e agli ungheresi emigrare per scappare dalla povertà.

Schematizzando questa prima ondata migratoria era dovuta essenzialmente a:
* Un calo della richiesta di manodopera in Germania e Austria-Ungheria;
* La propaganda esercitata dagli agenti di emigrazione (intermediari delle compagnie di navigazione italiane e dei governi brasiliano e argentino), che dipingevano l’America come il paese di cuccagna;
* Una situazione economica difficile per la maggior parte della popolazione, soprattutto rurale;
* Una politica di facilitazioni (come il viaggio gratuito) offerto a coloro che decidevano di emigrare;

l’emigrazione in Sudamerica era favorita anche dai paesi di destinazione. In Brasile infatti nel 1869 era stata approvata una legge (detta del “ventre libero”) che affrancava dalla schiavitù tutti i figli di schiavi nati dopo il 1870. Preludio della definitiva abolizione della schiavitù (1889) questa legge apriva tuttavia un problema di manodopera nelle grandi piantagioni di caffè dello stato di Sao Paulo, costringendo i “fazenderos” (cioè i grandi proprietari terrieri brasiliani, che occupavano un ruolo importante nella vita del paese) a ricercare nuova manodopera all’estero.

L’emigrazione era vista con favore anche nelle zone di origine degli emigranti. La crisi economica, l’arretratezza dell’agricoltura e una società ancora semifeudale creavano non pochi problemi ai piccoli proprietari, ai braccianti della pianura padana e ai “cafoni” del Sud Italia. In questo contesto l’emigrazione diventò anche valvola di sfogo per l’eccesso di popolazione e,insieme, prospettiva di riscatto sociale a tutti coloro che vivevano una vita di stenti sfruttati dai grandi proprietari terrieri.
Non di rado c’era anche una voglia incoffessa di “lasciare che siano i padroni a lavorare la terra”, visto come per la maggior parte dei contadini era il padrone la causa della miseria nella quale erano costretti a vivere (e in parte era vero).

Nel 1876 sorsero le prime agenzie di emigrazione in Veneto. Queste agenzie erano i portavoce degli interessi delle compagnie di navigazione italiane e dei governi sudamericani. Le compagnie proponevano condizioni vantaggiose a chi decideva di fare fortuna: il viaggio gratuito, una piccola somma con cui avviare un’attività, la fornitura di attrezzi agricoli e persino la garanzia di una casa nei nuovi villaggi che si stavano costruendo in Brasile e in Argentina; dove la conquista della Patagonia e la cacciata degli ultimi indios aveva aperto ai grandi allevatori sterminate praterie dove allevare grandi mandrie di manzi (siamo nell’epoca dei gauchos, i cowboys argentini). Sempre nel 1876 le autorità parlarono del fenomeno come di esodo verso le Americhe.

Subito si diffuse l’allarme tra i grandi proprietari, che temendo di perdere una parte importante di manodopera promossero studi e seminari a livello locale su come fermare l’emigrazione dei contadini.
Oltre che verso l’America, si sviluppò anche l’emigrazione interna, verso le aree del nascente triangolo industriale. In questa prima fase il Polesine (l’area compresa tra Adige e Po) e la Bassa padana, nonché aree collinari come le Langhe o il Monferrato rappresentano il grande serbatoio di braccia per le industrie del Nord. Dopo il 1880 a causa della crisi agricola e della guerra doganale con la Francia l’emigrazione conobbe una forte impennata. La crisi agricola di quegli anni era una crisi di espansione, conseguenza dello sviluppo capitalistico dell’agricoltura di quegli anni, che aveva portato a una prima forma di “globalizzazione” dei mercati con l’immissione nei mercati europei di frumento russo e americano. La crisi colpì tutti i paesi dell’Europa Occidentale, ma nel nostro Paese fu più gravosa perché l’Italia era ancora un’economia giovane e arretrata, anche nel settore agricolo, con gravi situazioni di arretratezza in Veneto e nel Sud, dove la gestione delle aziende agricole avveniva con metodi che tutto erano tranne che capitalisti.

I paesi di destinazione, come già detto più volte, erano Brasile e Argentina. Si calcola che circa l’82% degli emigranti arrivò in Brasile in questo periodo. La maggior parte divennero contadini nelle fazendas e nelle piantagioni di caffè. Nuovi villaggi vennero costruiti nel sud del Paese per ospitare i nuovi arrivati: Nova Venezia, Bella Vista, Curitiba sono ancora oggi villaggi dove si parla in italiano e sopravvivono le nostre tradizioni, ma anche grandi città come San Paolo in Brasile o Buenos Aires in Argentina sono città caratterizzate da una forte impronta italiana.

L’emigrazione assumerà toni di epopea nel mondo rurale italiano, soprattutto al sud, e lo spopolamento di intere regioni, che vedevano partire le proprie forze migliori verso nuovi orizzonti, accrescerà fino alla prima guerra mondiale. Nel dopoguerra il numero degli emigranti invece inizierà a calare fino a diventare di poche decine di migliaia all’anno nel ventennio fascista. Un’altra grande ondata di emigranti verso l’Europa Settentrionale e l’Australia interesserà il nostro paese nel secondo dopoguerra, ma ormai l’epopea di cui abbiamo parlato si era esaurita, grazie anche alle opere di bonifica, alla riforma agraria democristiana e alla soppressione della mezzadria che saziarono la fame di terra delle classi subalterne

Bertazzolo Nicola
Bibliografia:
Antonio Lazzerini, “campagne venete ed emigrazione di massa”
Antonio Marson, “San Stino ricerche storiche”
E altri libri e riviste della mia biblioteca

I plebisciti burletta

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