LA LEGGENDA DI SAN MARCO - IL LEONE DI SAN MARCO
LA GONDOLA VENEZIANA - I COLOMBI DI PIAZZA S. MARCO
LA BOXE A VENEZIA - I MURAZZI - LE ZATTERE
EMIGRARE A COSTANTINOPOLI ?

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LA LEGGENDA DI SAN MARCO


ANNO 829 - A VENEZIA vengono portate da Alessandria d'Egitto le ceneri di San Marco, che secondo la leggenda e la tradizione furono trafugate da una spedizione di due arditi marinai, Rustico di Torcello e Buono di Malamacco.
L'antica leggenda: Marco era stato uno degli ultimi apostoli di Gesù Cristo, era il Santo Evangelista; era colui che aveva scritto un libro verso il 65 sulla vita di Gesù, trascrivendo esattamente ciò che aveva appreso dalla bocca stessa del Capo degli Apostoli, e fu proprio Pietro che lo aveva consigliato di recarsi ad Aquileia, dove aveva predicato la "Buona Novella" che Gesu' Nazareno, aveva annunciato al mondo.

Da Aquileia ( una delle più importanti città strategiche dell'Italia del Nord popolata di romani e sede della X Legio) Pietro lo aveva poi consigliato di recarsi ad Alessandria d'Egitto con lo scopo di convertire gli infedeli di quel paese. Partito dalla citta' lagunare, in una buia sera di tempesta, la navicella dove era imbarcato Marco cerco' riparo in una delle poche capanne di pescatori che sorgevano sull'isola si dice di Rialto, altri Malamocco (da qui la famosa contesa pretestuosa fra le due fazioni politiche in lotta). Il Santo dopo una frugale cena coi pescatori si tese a terra, si addormentò e nel sogno che fece gli apparve un angelo che così gli parlò "Su questa isoletta, o Marco un giorno una grande città meravigliosa sorgerà e in questa tu troverai il tuo ultimo riposo e avrai pace- Pax tibi, Marce, Evangelista meus". Marco al mattino si svegliò, raccontò ai pescatori il suo sogno, e prima di salpare nuovamente per l' Egitto dove trovò la morte per martirio, disse loro tante cose sulla vita di Gesù che quei pescatori ne rimasero impressionati, che si ricordarono a lungo delle cose sentite e le raccontarono di padre in figlio, e poi ai figli dei figli, così per secoli fino a questo 829, quando i marinai veneziani dopo che la città era veramente nata ed era -e stava sempre di piu' diventando- grande, libera, forte e bella, cercavano il santo che la proteggesse. E chi poteva essere questo Santo se non quel Marco di cui si era andato sempre parlando di padre in figlio? San Marco!

Dopo aver raccolto le informazioni sulla fine di Marco, la pista buona portava in Africa. Ed eccoci quindi alla spedizione di Rustico e Buono che partiti alla ricerca del corpo del Santo in Egitto, dopo lunghe ricerche la trovarono nella chiesa di Alessandria, dove nottetempo riusciti a trafugarne le sante reliquie le trasportarono nella loro città dove Marco aveva trascorso tanti anni prima quella notte, la misero sulla nuova chiesa che ora stavano progettando di edificare a Rialto, e sopra quei resti i nuovi Veneziani eressero al loro Santo protettore la stupenda Basilica che ancor oggi tutti ammiriamo.

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IL LEONE


Questo è il simbolo del Santo perchè questi inizia il suo Vangelo, ricordando la voce del Battista che, nel deserto, si eleva simile a un ruggito, preannunciando agli uomini la venuta di Gesù: ebbene il leone diventò in breve anche il simbolo della Serenissima.

Ma c'è quest'altra versione, molto più arcaica e che non è una leggenda.
 Le prime tracce di presenza umana nel Veneto risalgono al paleolitico Inferiore. Ma meglio documentato da reperti è il paleolitico Medio e quello Superiore. Industria musteriana (pal. inf.) ed epigravettiana (pal. sup) sono presenti in moltissime località: la più importante - dove attualmente sono ancora in corso gli scavi - è il Riparo Tagliente in Valpantena. Qui fra altri reperti, in una tomba, su una pietra è stato trovato incisa la figura di un leone. 
La leggenda del Leone di San Marco si mescolerebbe quindi con la preistoria, quando nelle grandi foreste padane questo feroce animale era indubbiamente presente. L'artista che scolpì quella pietra non può averlo solo sognato.

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LA GONDOLA

Non è una invenzione tipicamente veneziana,  come disegno questo ha origini remote, e in Grecia antica per la sua aggraziata forma concava veniva chiamata "Kondis" cioe' conchiglia, presa dal vecchio persiano "Kondy, quindi in greco classico in "Kondura", infine in latino Menagio la chiama "Gondus", e Ovidio ce la propone in " Cunula", da cuna, culla, e l'insieme di Menagio-Ovidio fa nascere la " Gondula", italianizzato in "Gondola".
Una descrizione data dal Musatti (in Storia di Venezia) è questa: "Sull'etimologia della voce gondola varie sono le opinioni: chi la fa derivare dal lat. cymbula (barchetta) o piuttosto concha (da cui concula) che significa conchiglia ed anche conca, chi dal greco vocabolo (condy) specie di navicella, forse chiamata volgarmente (kuntelas). Comunque sia, ALTINELLI (Lessico Veneto, pag. 144, alla voce relativa) dà la seguente altra spiegazione: «Questo nome viene da cymbula, barchetta. Pronunziandosi anticamente la y come la u e ben spesso cambiando i Veneziani la c in g, nacque la voce gundula, poi gondola».

Lo era nella forma, ma i veneziani le diedero la singolarità strutturale, che è costituita dalla dissimmetria dello scafo rispetto al piano longitudinale-verticale; questo ha lo scopo e permette di favorire la stabilità di rotta quando la gondola è condotta dal solo vogatore che con un unico remo, provvede sia alla propulsione che alla direzione. A cosa si deve questa originale invenzione non è dato da sapere, si dice che non potendosi permettere un compagno rematore, che un certo maestro d'ascia, si costruì la sua barca su misura e senza bisogno di altri rematori, compensando la mancanza di un altro rematore a destra con la dissimmetria a sinistra e con il famoso "ferro" a pettine sistemato a prora che bilancia il peso. Le prenotazioni arrivarono a valanga da chi non aveva personale, e gli altri maestri d'ascia si dovettero adeguare. La " Fiat 600" delle acque e del secolo dilagò.
C'era chi ne aveva bisogno per lavorare coi trasporti del suo artigianato, chi la ordinò per diporto, per passeggiare o per ostentare l'ultimo modello. Ma non ci si accontentò dell'ultimo modello, lo si volle personalizzato, decorato, fuori serie, colorato, dorato da mille fregi alla bizantina che erano le guarniture di drappi e stoffe sfarzose; i rostri poi erano costosi quanto la barca intera; finchè diventarono sempre più suntuose, grandi, più lunghe, più larghe, insomma un'anarchia di fogge, di materiali, di decorazioni, di colori. Insomma la gondola era lo "status simbol". Anche chi non aveva soldi in tasca girava per i canali con "la Ferrari del tempo", facendo credere con l'esteriorità quello che non era. Delinquenti che giravano col rostro della Vergine di giorno e di notte erano dei ladri, oppure rostri di teste di leoni che poi ospitavano dentro le tendine "teste di pecora". Tutto da ridere e anche da piangere.

Nel 1562 tali ostentazioni non erano più di moda, anzi le si condannava visto i venti di crisi che stavano arrivando, dopo la scoperta dell'America: Il Senato volle quindi porre freno a questa dilagante manie di grandezza e di lussi, e poi anche per regolamentare la materia. Il fatto che uno aveva soldi non doveva aver il diritto di farsi una barca più grande e ostacolare i canali di transito agli altri, si volle una democraticizzazione e una regolamentazione nelle misure e anche nella sobrietà. Quindi si votò che tutte le gondole dovevano essere rigorosamente NERE, senza nessun altro fregio se non un semplice simbolo, e che la misura standard era per tutti ricchi e poveri 11 metri lunga, 1,75 larga, 7 quintali di peso. Diventò Legge!

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I COLOMBI

Chi vede oggi i colombi nelle piazze di tutta Italia, non immagina che la prima coppia di colombi abitò qui a Piazza san Marco, e che da qui venne questa abitudine pari pari copiata per illudersi le altre città di far diventare la propria piazza quella della Serenissima.
 Il colombo per Venezia messo sotto la protezione di San Marco è sacro, il veneziano ama e rispetta i suoi colombi. E lo dimostrò quando tenne fede alla tradizione originaria nel grande assedio del 1848-1849 , non osò toccarli dopo quasi un anno di fame che li costrinse alla fine arrendersi. Avrebbero potuto sopravvivere per mesi mangiandoseli, non ne uccisero uno solo. Il motivo?
Una vecchia leggenda vorrebbe che i colombi di San Marco discendessero da quelli fuggiti a torme, natis in beccis, dietro i profughi di Oderzo, cacciati dai barbari. Narrano invece le cronache come vi fosse una costumanza antica nella domenica delle Palme di sciogliere al volo i piccioni. Altri credono invece sia da riportarsi la loro introduzione all'uso (quello di mantenere le colombe a pubbliche spese) ancora esistente nelle città della Russia meridionale e della Persia.
Ma vi è anche un'altra leggenda che non lo è poi tanto, visto che sono ancora lì i colombi.
Narra questa leggenda che si era appena finita di costruire la Basilica, e come ogni anno le varie contrade e le varie confraternite portavano in dono al Doge i regali che allora erano fatti ancora di poche cose, della frutta, delle focacce, dolci, qualche animale da cortile, e qualche prelibato volatile. Nei regali  di quel lontano giorno, c'erano appunto un paio di colombi selvatici, messi dentro una cesta, ma che una volta donata al Doge e da questo aperta, i colombi volarono via e invece di finire allo spiedo (a Breganze un paese di Vicenza ce l'ha come specialita' gastronomica e si mangiano ancora oggi, li chiamano Torresan - i colombi della torre) si rifugiarono sotto la volta dorata del frontale della basilica bizantina appena inaugurata. Si gridò al miracolo di San Marco, insomma la folla non solo non permise che fossero catturati, ma dal momento che si erano messi sotto la protezione di San Marco, dovevano essere considerati sacri, e non ci fu da allora veneziano che non portava da mangiare ai due colombi in quella piazza che era diventata la loro casa, tanto che lo stesso doge da quel momento decretò che la Repubblica si sarebbe incaricata perpetuamente di somministrare l'alimento necessario alla coppia e ai suo futuri nascituri.

Quando ormai divennero tanti, intervenne più tardi anche il Senato che confermò a furor di popolo l'antica decisione del doge e così la fortunata famigliola e i loro discendenti prosperarono sino a diventare quell'immensa schiera che oggi tutti vediamo e con quel decreto dogale che non è mai stato abrogato, ha permesso di vivere fino ad oggi a spese del Comune di Venezia, che ha tentato di ridurli sterilizzandoli, non certo uccidendoli, sarebbe considerato un delitto grave. Anche perché c'é un'altra leggenda, nessuno sa dove vanno a morire i colombi; in un luogo lontano - vi dirà un veneziano - che mai nessuno è riuscito a scoprire.

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LA BOXE A VENEZIA

Chi va nel Rione San Barnaba, troverà il Ponte dei Pugni; lo strano nome ricorda l'usanza non meno strana, di fare del ponte il teatro di battaglia del " Gioco dei pugni", una vera e propria gara fra cittadini di diversi quartieri. Divennero in seguito così violente che alcuni secoli fa i Dogi le proibirono.

 

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I MURAZZI DI VENEZIA

ANNO 829 - Appena insediati a Rialto, sorse subito il problema sia della difesa dell'isola e delle isolette dal mare sia per l'approvvigionamento dei materiali da costruzione. Il governo subito nomina i primi magistrati per la conservazione della Laguna incaricati della difesa del mare e di regolare i 6 fiumi che alla laguna provocavano fattori di pericolo. Piave, Sile, Brenta, Bacchiglione, come pure Adige e Po. In quest'anno si progetta e si da' inizio al consolidamento dei cordoni litoranei con opere di palafitte e di dighe che a poco a poco si estesero per una lunghezza di 20 chilometri.

E' un primo esempio, questo, dei celebri "murazzi", potenti argini di difesa contro gli assalti del mare. Non che chiudono interamente la laguna facendone un "laguna palude", ma con le aperture tra i murazzi, che comunicano con il mare aperto, permettono le correnti con l'alta e la bassa marea a fare dello specchio d'acqua una "laguna viva", cioè con il ricambio nell'entrata e uscita permette che le regolate acque dei fiumi che vi si versano non sedimentano. E già nel 1324, dopo varie alluvioni che stavano interrando cancellando del tutto le acque di Venezia, con grandi opere, si diedero inizio ai lavori di grandi costruzioni di argini per la separazione dei fiumi dalla laguna, che nel 1501 il Gran Consiglio dopo aver nominato il " Magistrato alle Acque" nel 1550, questo iniziava i lavori di arginatura nel Brenta il più minaccioso, e del Bacchiglione che è quello centrale e che dalle valli vicentine porta a valle continuamente detriti. Nel 1556 toccherà al Piave e al Po dove quest'ultimo, nel 1604 con il Taglio di Viro segue il nuovo letto che darà origine all'attuale delta del Polesine. Nel 1613 toccherà definitivamente al Brenta che con un grande ciclopico canale lo si porta da Mira a sfociare direttamente al mare, e nel 1683 al Piave che deviato anche lui, sfocerà da quest'anno oltre Iesolo. Ciclopici lavori, tutto perché Venezia voleva attorno a se' il Mare e non voleva essere inghiottita dalle sabbie e dai detriti dei fiumi; la natura a quest'ora avrebbe già fatto la sua opera, sarebbe da tempo una città del retroterra, come tante altre città Italiane, un tempo affacciate alle rive adriatiche ed ora lontane dal mare o addirittura scomparse. Il Veneziano disse NO! Deviò i fiumi, costruì dighe, canali e nel terreno iniziò a infilare milioni di pali..........

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Le ZATTERE

Le famose fondamenta che fiancheggiano il canale della Giudecca, sono cosi' chiamate perché un tempo vi si ormeggiavano le zattere che dopo lunghi viaggi sui fiumi che abbiamo citato, lentamente trasportavano il migliore legname dalle foreste di tutto il Veneto. Enormi zatteroni carichi di migliaia e migliaia di tronchi provenienti dai monti, scaricavano lì quei pali, dove poi infissi, i costruttori veneziani, iniziarono a mettere sopra di essi i primi blocchi di pietra ed elevarono alla fine quegli incantevoli palazzi che sembrano sfidare per chissà quanti secoli il tempo.

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LO "ZECCHINO" O DUCATO D'ORO VENEZIANO


di GIULIO BERNARDI e SERGIO ROSSI

Il ducato d'oro veneziano o zecchino (dall'arabo Sikka, che era il diritto di essere nominati sulle monete e dalla radice araba Sakk, che significa scavare) fu, durante tutto l'autunno del medioevo e l'alba dell'eta' moderna, la principale misura delle ricchezze. 
D'oro purissimo e di peso costante, era un punto di riferimento per ogni valutazione. La quantita' di oro fino (tre grammi e mezzo) di cui era costituito, era quella giusta per un pagamento di media importanza, quale un abito non di lusso, una ricca cena tra amici, le grazie di una cortigiana di media belta'. 
E' assai curioso notare come, dopo la scoperta dell'America e l'afflusso di oro che ne consegui', questa quantita' ottimale di metallo prezioso si sia progressivamente assestata su pesi considerevolmente maggiori: nel sei-settecento, la pistola (o doblone) con circa sei grammi, poi il Luigi con lo stesso peso di oro puro e la sterlina con oltre un grammo di piu'. Prima di tanta inflazione pero' lo zecchino domino' incontrastato non solo in Europa ma anche in Africa ed in Asia, dove rimase poi a lungo nella tradizione e nella pratica. 
A Ceylon era particolarmente gradito perche' gli indigeni vedevano nelle figure la rappresentazione di uno dei loro mestieri piu' popolari: la raccolta del nettare di cocco. Chiunque era infatti capace di riconoscere la figura di un santo nimbato, mentre non c'era spiegazione per l'uomo inginocchiato davanti a lui se non immaginarlo nell'atto di prepararsi a salire la palma (la lunga asta tra i due, con in cima il vessillo o la croce). 

Il ducato veneziano fu coniato per la prima volta il 31 ottobre 1284 con lo stesso peso e lo stesso titolo del fiorino di Firenze, che circolava da oltre trent'anni. Ma per alcuni il ducato deriverebbe da un Duca di Ferrara, che l'avrebbe fatto battere nel VIº secolo, per altri da Ruggero IIº di Sicilia, Duca delle Puglie che l'avrebbe voluta nel 1110, con l'immagine del Cristo. In ogni caso i ducati presero questo nome in quanto vi era impressa la figura del Doge (Duca). 
La moneta aurea veneziana mantenne sempre peso e titolo invariati (aveva al massimo 3 per mille d'impurita' cioe' 0,997). Nel 1455 il valore legale del ducato fu fissato in 124 soldi di piccoli d'argento; il ducato divenne percio' una moneta di conto, alla quale fu dato un corrispondente battendo ducati d'argento. E fu da questo momento che si chiamo' zecchino (da Zecca) e non piu' ducato. Fu infatti sotto il dogado di Francesco Dona' (1545-1553) che si trova sempre piu' spesso la parola "cechino", da cui zecchino, per indicare il ducato d'oro anche nei documenti pubblici. 

Il primo ducato fu coniato sotto il dogado di Giovanni Dandolo. Titolo dell'oro = 1000; peso = gr 3,559. La moneta presenta le seguenti caratteristiche: 
al diritto : San Marco aureolato e con sontuosa veste tiene il Vangelo nella mano sinistra e, volgendosi a destra, porge al Doge genuflesso un'orifiamma, su cui si trova la croce. Il Doge ha un manto ornato con pelliccia ed il capo con il berretto ducale; egli stringe l'asta con ambo le mani; 
al rovescio : Gesu' Cristo e' in piedi, di fronte, con un nimbo crociato di forma greca, avvolto in una lunga veste. Con la mano sinistra tiene il Vangelo e con la destra benedice. Il Redentore e' in un'aureola ellittica cosparsa di stelle (4 a sinistra e 5 a destra). 

L'ultimo Doge in cui si ebbero i ducati fu Pietro Lando (1539-1545). Poi con Francesco Dona' (1545-1553) e Marcantonio Trevisan (1553-1554), le monete si chiamarono indifferentemente ducati o zecchini. 
La moneta coniata per Francesco Dona' (o Donato) aveva titolo d'oro = 1000, cioe' 24 carati di fino e pesava 3,494 gr; 
al diritto : sopra una linea orizzontale San Marco e' in piedi e porge il vessillo al Doge genuflesso; 
al rovescio : il Redentore appare benedicente in un'aureola ellittica cosparsa di 9 stelle a 5 raggi (4 a sinistra e 5 a destra) 

Il primo Doge sotto il quale la moneta si chiamo' pubblicamente "zecchino" fu Francesco Venier (1554-1559). Anch'essa aveva titolo d'oro = 1000 (24 carati di fino) e pesava 3,494 gr. Essa mostrava : 
al diritto : sopra una linea San Marco in piedi che porge, al Doge genuflesso, il vessillo; 
al rovescio : il Redentore benedicente e' entro un'aureola ellittica con 12 stelle a 5 punte, 6 a sinistra e 6 a destra. 

I Dogi che fecero coniare ducati o zecchini furono settantatre a partire da Giovanni Dandolo (1284) che fu il 48º e finendo con Ludovico Manin che fu il 120º. Con quest'ultimo termina anche la storia entusiasmante (1797) della Repubblica della Serenissima. 

    QUEL "VENERDI" DI MARINO FALIERO

Il venerdì 17 aprile (è forse da qui che è incominciata la credenza di giornata/numero porta-sventura?) del 1356 veniva decapitato il Doge Marino Faliero per alto tradimento, del quale però non esiste un ritratto abbastanza attendibile. 
Nato verso il 1285 , poco si conosce della sua giovinezza fino ai trent'anni, quando lo si ritrova membro del Consiglio dei Dieci, una delle più alte cariche veneziane, e con numerosi incarichi sia politici che militari, tutti assolti con grande dignità e fierezza, come ad esempio l'assedio di Zara del 1345. 
Di antico casato, che probabilmente proveniva da Fano, Marino Falier era ricchissimo ed aveva ulteriormente aumentato il potere della sua famiglia, dove già c'erano stati due dogati: il Doge FALIER DODONI Vitale dal 1084 al 1095 ed il Doge FALIER DODONI Ordelaf (anagramma di Faledro) figlio di Vitale dal 1102 al 1118. Quest'ultimo fu trucidato a Zara, sepolto a S.Marco e definito come "Re dei Re e correttore delle leggi". Si può notare quindi come nel regime del Doge vi fosse ancora il concetto di potere assoluto. E questo è un concetto molto importante, che probabilmente ha influenzato in misura notevole anche Marino Falier. 
Alla morte di Andrea Dandolo, egli fu eletto, al primo scrutinio, Doge di Venezia, l'11 settembre 1354, mentre si trovava ad Avignone come ambasciatore presso il papa Innocenzo VI. Arrivò a Venezia il 5 ottobre sul Bucintoro, come tradizione voleva. Qui avvenne un disguido che fu subito interpretato "estremamente di cattivo augurio" in quanto, essendo una giornata di nebbia, la barca dovette attraccare al centro del molo, sulla piazzetta, ed il corteo dogale passò perciò tra le due colonne di San Marco e San Teodoro, dove venivano eseguite le condanne a morte. 
Per la sua ambizione di grandezza, e per il suo carattere violento, anche il dogato non era sufficiente ad un uomo come Marin Faliero, soprattutto perchè in quel tempo vi era un forte ristagno economico, di cui il popolo "borghese", formato da artigiani ed industriali, si lamentava fortemente. Ciò perchè la concorrenza con Genova , dopo la sconfitta veneziana di Portolongo, si era fatta insopportabile. 
Dal 1350 al 1355 Venezia passò infatti un momento estremamente delicato; la guerra con Genova, la precedente guerra coi veronesi e la peste avevano creato gravi difficoltà economiche con il commercio stagnante, con la scarsa circolazione monetaria, con un forte aumento del numero dei poveri, e con tassi d'interesse lievitati del 40%. 
Allora nella mente di Marino, anche per l'offesa patita da un giovane patrizio Michele Steno nei riguardi della moglie Aluica (Lodovico di Niccolò Gradenigo), scattò l'idea di una congiura per assicurare il dominio della sua famiglia contro l'intera aristocrazia che dominava la città. Si rivolse pertanto a coloro che, finanziariamente potenti, erano però esclusi dalla politica. Fra essi, si può ricordare Bertuccio Israello, proprietario di navi, Filippo Calendario, tagliapietra e ricco proprietario di barconi, ed un certo Bertrando Bergamoso, ricchissimo pellicciaio.
 
La data dell'insurrezione era stata stabilita per il 15 aprile 1355. Con le armi ci si doveva impadronire del Palazzo Ducale, uccidendo i membri dei vari Consigli; successivamente era previsto di eliminare tutta la nobiltà assieme ai loro figli, di sopprimere il Maggior Consiglio e nominare infine il Doge "Signore di Venezia".
 
La congiura fallisce per un'incauta confidenza del Bergamoso ad un suo amico, il patrizio Nicolò Lion. I congiurati vengono subito arrestati e sottoposti a tortura. In questo modo si viene a sapere che il capo dei congiurati è il Doge in persona. La città è posta in stato d'allarme da parte dei patrizi armati e quindi la congiura viene stroncata sul nascere. Il 16 aprile vengono condannati e giustiziati Bertuccio Israello e Filippo Calendario, cui seguono altri nove congiurati. Il 17 aprile è la volta di Marino Falier ad essere giudicato e condannato, per alto tradimento, ad essere decapitato. La sentenza venne eseguita nel Palazzo Ducale a porte chiuse nello stesso posto dove, prima di cingere la corona ducale, il Doge Marin Faliero aveva prestato giuramento di osservare la "promissione". Il boia, con la spada ancora insanguinata, gridò da una loggia:"Guardate tutti che è stata fatta giustizia del traditore". Il corpo rimase esposto per un giorno su una stuoia con accanto la testa tagliata. La sera del 18 aprile, il cadavere fu posto in una gondola e portato senza alcuna pompa alla sepoltura, costituita da un cassone di pietra che fu messo dapprima in un angolo di una cappella nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo. 

Successivamente il cassone, svuotato e rimosso, fu utilizzato come serbatoio per l'acqua dell'ospedale civile e trovò infine la sua collocazione, privo di stemmi ed iscrizioni, nella loggia esterna dell'antica sede del museo Correr. 
Per lo scampato pericolo, Il giorno 16 aprile, per Decreto del Consiglio dei Dieci, divenne festa Nazionale ed il luogo della parete della sala del Maggior Consiglio, dove avrebbe dovuto essere posta la sua immagine, venne dipinto di azzurro con la scritta a lettere bianche:

HIC FUIT LOCUS SER MARINI FALETRI 
DECAPITATI PRO CRIMINE PRODITIONIS

Dopo l'incendio di Palazzo Ducale del 1577 fu messo invece un drappo nero con una scritta un po' diversa:

HIC EST LOCUS MARINI FALETRI 
DECAPITATI PRO CRIMINIBUS

Interessato e stupito da questa storia, nel 1820, il BYRON fece un riuscito dramma dal titolo MARINO FALIERO.
Le monete di questo doge (ducato in oro, soldino d'argento, ed il tornese) sono tutte assai rare, soprattutto per la breve durata del suo dogato (sette mesi). Ugualmente Marin Faliero è diventato senz'altro il Doge più famoso del mondo. Questo è un fatto molto curioso, perchè la repubblica cercò in ogni modo di cancellarne il ricordo. La sentenza con la pena capitale non fu trascritta nel libro IVº dei Misti, al posto della quale si legge un "NON SCRIBATUR". La campana che fu suonata al momento della sua condanna per indicare che essa era stata eseguita, non fu piu' suonata, pena la morte, come decise il Consiglio dei Dieci e fu messa senza battacchio nella chiesa di San Marco. 
È solo per tradizione numismatica, che si sostiene che le monete di questo doge vennero incettate per ordine della Signoria e rifuse per cancellarne la memoria. La rarità soprattutto del ducato di questo Doge è dimostrata dal fatto che dall'inizio secolo ad oggi esso è stato offerto in pubbliche aste solo tre volte.

GIULIO BERNARDI e SERGIO ROSSI - Numismatici

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QUANDO PER UN SOLO VOTO CONTRARIO
VENEZIA NON EMIGRO' A COSTANTINOPOLI


"I timori che le condizioni del luogo e dell'aria potessero farsi, col proceder del tempo, infeste e nocive non trattennero i Veneziani dall'ampliare ed abbellire la loro sede.
In un tempo ormai lontano era tuttavia sorto nell'animo di qualcuno il fastidio della patria umile e angusta.
Quando, nel 1204, Venezia aveva piantato il vessillo di San Marco sulle torri imperiali di Bisanzio, ai lidi incantati del Bosforo si volsero con desiderio alcuni animi ambiziosi. Fra lo squallore delle venete lagune s'era fondata la nazione; fra la luce d'Oriente essa si sarebbe potuta svolgere in tutta la sua potenza, e le bellezze e le armonie del mondo antico si sarebbero potute ridestare al contatto della vita giovanile di un popolo, che avrebbe potuto infonder gagliardia alla raffinatezza della civiltà bizantina.

Narra infatti la tradizione, raccolta da alcuni storici (Ne parlano fra altri la Cronaca Savina, Daniele Barbaro e Fr. Corner in Creta Sacra), che il doge Pietro Ziani "considerando li grandi e mirabili progressi che se avevan fatto in levante, ge venne pensiero che se dovesse andar ad abitar in Costantinopoli, e in quella città fermar e stabilir il dominio dei Veneziani. E, dinanzi al Consiglio, il Doge rappresentò come Venezia fosse continuamente esposta ai pericoli d'inondazione: quando invece il mare lasciava scoperte le secche, il fetore era insopportabile. Quel che si consumava in città era portato tutto dal di fuori, nelle paludi non si raccoglievano altro che cappe, granzi et altri pesseti malsani. Costantinopoli invece era un paese dotado de tutte le grazie e i doni de Dio".

Ma sulla prosa dell'utile prevalse la santa poesia della patria, che anche ai popoli più positivi ricorda come un paese non viva soltanto di dovizie e di traffichi, ma si anche di anima e di affetti.
La tradizione incarna la religione della patria in un vecchio di molta autorità, Angelo Faliero, il quale, rispondendo al Doge Ziani, ricordò come "tra quelle squallide paludi erano morti e sepolti i padri, e vivevano i figliuoli e le mogli e stava ogni cosa più caramente diletta". Disse poi che "la desolazione dei luoghi era stata la causa della forza dei Veneziani, spingendoli alla suprema principale industria, la navigazione".
Rivoltosi poi - così un vecchio cronista - verso un' imagine di Gesù, con molto patetica preghiera invocò il suo patrocinio "e con le lagrime agli occhi smontò dalla bigoncia. Quindi ballottata la propositione di un solo voto venne deciso, e fu il voto della Provvidenza di non fare la proposta emigrazione.
Di tutto ciò non fanno cenno i migliori storici e il racconto è assai verosimilmente una leggenda, la quale però vale a dimostrare quanto alto fosse l'amore degli animi più eletti per quella patria santificata da tante lotte, da tanti dolori, da tanti trionfi. Quel pensiero di trasportare i veneti sulle rive del Bosforo doveva sembrare un delitto ai posteri, che vedevano crescere ogni giorno in bellezza e in prosperità la patria amatissima.
(Pompeo Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata - II vol. pag. 68-69-70).


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