LA PRIMA GUERRA MONDIALE
DAI BOLLETTINI UFFICIALI

1918

ITALIANI IN ALBANIA, MACEDONIA, FRANCIA
E IN MANCIURIA

LA RIVOLUZIONE RUSSA E LA STRAGE DEI ROMANOV

L'OPERA DEL XVI CORPO D' ARMATA ITALIANO IN ALBANIA NEL 1918 - LE AVANZATE TRA IL DEVOLI E L'OSSUM E DALLA VOJUSSA AL SEMENI; LA CONQUISTA DELLA MALAKASTRA; LA PRESA DI FIERI E DI BERAT - LO SCHIERAMENTO DELLE FORZE ALLEATE E NEMICHE IN MACEDONIA - LA GRANDE OFFENSIVA DEL SETTEMBRE-OTTOBRE 1918 - L'OPERA DELLA 35° DIVISIONE ITALIANA - GLI ITALIANI INSEGUONO I BULGARI - L'ARMISTIZIO - L'AVANZATA IN ALBANIA: OCCUPAZIONE DI DURAZZO, TIRANA, SCUTARI, DULCIGNO E ANTIVARI - L'OPERA DEL II CORPO D'ARMATA ITALIANO IN FRANCIA: LA BATTAGLIA DELL'ARDRE E DI BLIGNY; DALL' AISNE ALLA MOSA - GLI ITALIANI IN MURMANIA E IN MANCIURIA

L'OPERA DEL XVI CORPO D'ARMATA ITALIANO IN ALBANIA NEL 1918

I Soldati italiani non si coprivano di gloria soltanto sul Piave e sugli Altipiani, ma anche fuori d'Italia in Albania, in Macedonia, e in Francia. Come vedremo più avanti, andranno perfino in Macedonia.

Il Albania, fra le alte valli del Devoti e dell'Ossum, con il concorso di truppe francesi, le truppe italiane effettuarono con pieno successo, nei giorni 15, 16, 17 maggio, una serie d'operazioni destinate a ridurre il saliente molto pronunziato formato dalla linea delle posizioni occupate dal nemico e a portare il fronte sopra una linea più vantaggiosa segnata dalle località di Cerevoda e di Protopapa. Nonostante le grandi difficoltà del terreno in un paese montagnoso privo di strade e nonostante la vigorosa resistenza del nemico, che contrattaccò ripetutamente, gli italiani raggiunsero tutti gli obiettivi, avanzando al centro per una ventina di chilometri, e catturando numerosi prigionieri.

All'azione concorsero le bande albanesi al servizio degli italiani; una colonna di 2 battaglioni di truppe indigene appoggiata da un gruppo di batterie italiane da montagna e preceduta da due gruppi di bande operò per il ponte Zapani; un'altra colonna formata di sole bande occupò i monti di Bocika fino a Celevoda e stabilì in tal modo il collegamento del fronte italiano con quello francese alla testata della Tomorica e dell'Ostrovica.

L'azione di maggio fu continuata nei primi di luglio allo scopo di conquistare la giogaia della Malakastra, che in mano agli Austriaci minacciava il campo italiano trincerato di Valona. Preparata fin nei più minimi particolari, d'accordo con i francesi che dovevano operare alla destra, l'azione fu fissata per la fine della prima settimana di luglio.
Alla mezzanotte del 6 luglio, una colonna italiana, composta di due battaglioni di guardie di finanza, e di due battaglioni di milizie e bande albanesi e comandate dal colonnello TREBOLDI, passò la Cerevoda e all'alba attaccò le posizioni nemiche del Tomor; non riuscì però ad espugnarle e ad avanzare perché la resistenza austriaca fu tenace, mentre il concorso di una colonna francese, che doveva fortemente sostenere l'ala destra italiana, venne a mancare.

Al centro, i Bersaglieri della colonna comandata dal generale ROSSI, durante la notte, passarono la Vojussa per puntare su Zabochica, sulla strada di Berat; alla sinistra, mentre navi italiane da guerra e monitori inglesi incrociavano sul mare per appoggiare le operazioni terrestri, la colonna del generale NIGRA, composta da una intera divisione e della cavalleria, occupò il bosco di Ferasa.
All'alba, del 7 luglio le colonne italiane avanzarono e attaccarono le posizioni nemiche. La colonna Treboldi, sperando di esser sostenuta dai Francesi, attaccò di nuovo il Tomor; alla sinistra la colonna Vigra assalì le alture tra Levani e il Monastero di Pojani, e vincendo la fortissima resistenza nemica se ne impadronì, mentre gli squadroni del "Catania" e del "Palermo" insieme con lo squadrone sardo, con brillante manovra si lanciavano in avanti tra le alture e le paludi costiere, piombavano arditamente su Fieri, raggiungevano i ponti di Metali, sul Semeni, portavano lo scompiglio nelle retrovie avversarie e catturavano moltissimi prigionieri, fra i quali alcuni aviatori con i loro aerei. Al centro i bersaglieri, attraverso gravi difficoltà di terreno, procedettero celermente per Izvori e i fanti, comandati dal generale Rossi, assalirono risoluti il nemico e Kafa Giava.

Tranne che il Tomor, la giornata del 7 luglio si chiuse con il vantaggio italiano. Nelle prime ore dell'8 cadeva in potere il Maja Sicovum e le difese nemiche del Glava cadevano sotto l'impetuoso attacco dei fanti del Rossi, che incalzarono gli Austriaci per il versante opposto della Malakastra di concerto con i bersaglieri risalenti il monte Zelenick.
Anche al Tomor la resistenza nemica cedeva e le truppe del colonnello Treboldi occupavano la linea, Terbuhova-Selletta di Costanza.

I1 9 luglio l'avanzata italiana proseguì incalzando il nemico in ritirata: la colonna Nigra giunse al ponte di Motali sul Semeni che il nemico fece saltare; la cavalleria giunse al ponte di Iagodina; il generale Rossi con truppe italiane e irregolari albanesi entrò in Berat; i bersaglieri raggiunsero la quota 1197 del Sinja; la colonna Treboldi continuò a procedere, sebbene lentamente, fra le aspre balze del Kafa Glumka.
In tre giorni di lotta, con pochissime perdite, gli italiani avevano conseguito grandi risultati; avevano occupato una vasta zona, avevano preso un bottino rilevante, avevano fatto quasi 2000 prigionieri e avevano rialzato il prestigio delle armi italiane, caduto molto in basso, dopo Caporetto, per la propaganda vasta e intensa dell'Austria fra gli Albanesi.
Le operazioni italiane sul fronte albanese, anche per desiderio del Comando dell'esercito d'Oriente, proseguirono per tutto il rimanente mese di luglio.
Fu raggiunta, con molta fatica, per la difficoltà dei rifornimenti, per l'asperità del terreno e per la resistenza nemica, la linea Gorica-Gageler; poi bisognò fermarsi, mentre numerosi rinforzi giungevano al nemico, che in poco tempo riuscì a concentrare una cinquantina di battaglioni sul Semeni. Gli italiani disponevano di appena 23 battaglioni, decimati dalla malaria e dalla "Spagnola", pure mantenendo malto il nome d'Italia.
Nonostante la superiorità numerica del nemico, il calcio eccessivo, le malattie, gli stenti e la difficoltà dei rifornimenti, per due mesi la resistenza fu eroica sulle alture conquistate, cedendo solo i paesi del piano verso il Semeni.

Intanto il Comando dell'esercito d'Oriente preparava una grande offensiva, alla quale anche lo nostre truppe d'Albania, rinforzate dalla 13a divisione, dovevano concorrere.


LE AVANZATE TRA IL DEVOLI E L'OSSUM E DALLA VOJUSSA AL SEMENI;
LA CONQUISTA DELLA MALAKASTRA; LA PRESA DI FIERI E DI BERAT


Alla vigilia di questa offensiva, il cui inizio fu fissato per il 14 settembre, lo schieramento delle forze alleate era il seguente: dal mare alla frontiera bulgara, lungo la Struma, 3 divisioni greche, fronteggiate dalla II Armata bulgara; a sinistra di questo settore fin oltre il Vardar 5 divisioni inglesi ad altrettante elleniche, davanti alle quali, stava la I Armata bulgara; nel settore della Moglewitza, di fronte al gruppo montagnoso del Kozjak, l'esercito serbo, rinforzato da due divisioni francesi (la 122a a sinistra e la 17a coloniale a destra) per fronteggiare la XI Armata Germanica; a cavallo della Corna orientale la II divisione coloniale francese, quindi la 35a divisione italiana che aveva la sinistra appoggiata alla Corna occidentale; nella piana di Monastir, tra la Corna e il Baba Planina, la 16a coloniale e la 156a divisione francese, due divisioni greche e la cavalleria francese; sul Baba le divisioni francesi 76a e 30a. Fronteggiava quest'ultima parte dello schieramento degli alleati imperiali la III Armata bulgara.

L'estrema ala sinistra, ad ovest del lago di Ocrida e fino al Devoli, la 57a divisione francese. Dal Devoli al mare, fronteggiato dal XIX Corpo d'Armata Austro-Ungarico, stava schierato il XVI Corpo italiano.
Lo sforzo principale doveva essere fatto dal settore della Moglewitza, dove erano schierati. 36.000 fucili alleati, sostenuti da 580 cannoni e da 800 mitragliatrici, contro 12.000 fucili bulgaro-tedeschi con 146 cannoni e 245 mitragliatrici. Il 14 settembre doveva avvenire su tutto il fronte un'azione dimostrativa con lo scopo di disorientare il nemico: il 15 si sarebbe poi effettuata l'azione di sfondamento.
Il compito affidato alla 35a divisione italiana non era facile: in un primo tempo essa doveva coprire il fianco sinistro delle truppe di rottura; effettuato lo sfondamento, doveva attaccare a fondo in direzione di Prilep per impadronirsi di quell'importante nodo stradale e centro di rifornimento; ma i mezzi offensivi erano scarsi e guai se al nemico fosse riuscito a rompere la linea tenuta dagli Italiani e di avvolgere dalla sinistra il settore della Moglewitza. Inoltre il terreno dove doveva svolgersi l'avanzata degli italiani era uno dei più aspri.
Tutto il 14 settembre e la notte successiva, le artiglierie degli Alleati bombardarono con grande violenza tutta il fronte nemico; all'alba del 15 i franco-serbi del settore della Moglevitza attaccarono le posizioni bulgare antistanti; ma furono energicamente contrattaccati e respinti e soltanto verso sera, ricevuti rinforzi, gli attaccanti riuscirono a prendere in saldo possesso lo Sokol, caposaldo della linea nemica.

Quel giorno anche nel settore occupato dagli italiani si accese e durò piuttosto accanita la lotta. Dopo una preparazione d'artiglieria violentissima, i Bulgari attaccarono le posizioni italiane, già sconvolte dal bombardamento; ma lo truppe della 35a divisione reagirono pronte e con estrema energia, contennero il nemico attaccante, lo respinsero sulle linee di partenza causandogli sanguinose perdite e catturandogli numerosi prigionieri. I Bulgari tornarono più volte all'attacco, ma furono sempre respinti.

La mattina del 16 settembre, dilavanti alla Moglewitza, lo sfondamento era avvenuto: i franco-serbi avevano conquistato il baluardo del Kozljak. Riperso nel pomeriggio, lo ripresero la sera. Perduto il Kozljalc, i Bulgari, che mancavano di riserve, iniziarono la ritirata in direzione della stretta di Demirkapu sul Vardar e di Prilep, inseguiti dai Serbi così rapidamente, che il giorno 20 questi erano a Kavadar.
L'inseguimento però poteva mutarsi in disastro perché i Serbi con la loro rapida avanzata, avevano formato un saliente strettissimo destinato ad esser travolto se contrattaccato ai fianchi dal nemico. Conscio del pericolo, il Comando serbo chiese al generale in capo FRANCHET D' ESPERY di far avanzare a sostegno del fianco sinistro del saliente le truppe alleate del settore della Cerna, e il 21 fu ordinato alla 25a divisione di passare all'offensiva.

Gli italiani, che da sei giorni resistevano al continuo martellamento delle artiglierie avversarie, ricevuto l'ordine, attaccarono con tale impeto che il nemico piuttosto che affrontarne l'urto sgombrò in fretta le trincee. Queste furono occupate nel tardo pomeriggio, e sebbene stesse per calare la sera, oltrepassata la linea, si diedero all'inseguimento del nemico e, catturando prigionieri, cannoni e materiali da guerra, avanzarono per oltre 10 chilometri fino all'alba del 22.


GLI ITALIANI INSEGUONO I BULGARI - L'ARMISTIZIO


Il 22 settembre la 35a divisione sloggiò i Bulgari del contrafforte di Kalabach e il giorno dopo, scesa nella conca di Prilep, occupò la città.
L'obiettivo assegnatole era stato raggiunto, ma la 35a divisione non doveva riposare sugli allori. Infatti, ebbe ordine di convergere a sinistra, puntare su Krusevo, traversare il massiccio del Baba Planina e affrettarsi verso Sop per tagliare la ritirata all'estrema destra della III Armata bulgara che ripiegava dirigendosi per Pribilei e Kicevo verso la stretta di Kalkandelen e quindi verso Uskub.
Nel pomeriggio dello stesso 23 settembre, facendo perno a Zapolzani, fu eseguita la Conversione. Il 24, la brigata "Cagliari", appoggiata da due squadroni di cavalleria, da nove batterie da campagna, da due da montagna e da una pesante campale, raggiunse il fronte Vodiani impegnandosi contro i Tedesco-bulgari che occupavano i contrafforti del Baba dalla stretta della Cerea ad Aldanée. La brigata "Sicilia" con sei batterie da montagna procedette a destra della "Cagliari" e, giunta a Novoselani, attaccò il nemico che resisteva su quelle alture.
Il 25 le alture di Novoselani furono occupate dalla "Sicilia", e caddero in potere della "Cagliari" la stretta della Corna e Krusevo. Il 26 tutta la 35a divisione, al comando del generale MOMBELLI era sul Baba o si disponeva a tagliare ai Bulgari la strada Monastir-Sop.
Il 27 settembre, fra accaniti combattimenti, le colonne della 35a divisione si attestavano sulla fronte Corna-Kar Kruska-Dole e si apprestarono a manovrare per attanagliare il nemico.

Il 29 settembre, la colonna italiana centrale attaccò la fortissima posizione di Sop difesa
da un'intera brigata bulgara con l'appoggio di numerosa artiglieria; la colonna di sinistra, superate le grandi difficoltà del terreno ed occupata la quota 932, attaccò vigorosamente le posizioni nemiche, richiamando sopra di se numerose forze avversarie, con le quali impegnò un duro combattimento che costò molte perdite alla brigata "Ivrea". _
Intanto dal Monte Cesma la brigata "Sicilia", sempre combattendo, giungeva sullo Stramol e l'occupava, quindi dava man forte alla 11a divisione coloniale francese, impotente ad aprirsi il passo in valle Velika, e respingeva su Plasnikà alcuni reparti d'una divisione bulgara.
All'alba del 30 settembre, entrata in azione la brigata "Cagliari", il nemico, pur forte di due brigate, era completamento accerchiato. L'attacco decisivo doveva avere inizio alle 6; ma alle 5.30 giunse l'ordine di sospendere le ostilità, essendo stato firmato l'armistizio chiesto dai Bulgari al generale FRANCHET D' ESPERY.

Tre generali, 240 ufficiali, 7.627 nomini di truppa con 8 cannoni, 70 mitragliatrici ed abbondante materiale si consegnarono alla 3a divisione. Nel frattempo un'altra divisione bulgara si arrendeva alla brigata "Sicilia", ma per ragioni di comodità consegnava le armi nelle mani dell'11a divisione coloniale francese.
Avvenuta la rottura della fronte bulgara e iniziatasi l'avanzata della 35a divisione, anche il XVI Corpo d'Albania cominciò l'avanzata, ostacolata dalle difficoltà del terreno privo di strade, qua e là allagato, dai ponti distrutti, e dalla resistenza nemica, in verità non forte. Il 30 settembre, pattuglie di cavalleria giungevano allo Skumbi, il 4 ottobre vi giungevano colonne leggere miste di fanteria e cavalleria ed una di loro appartenente alla brigata "Palermo" entrava in Elbasan, precedendovi di due ore l'avanguardia della 57a divisione francese.

L'AVANZATA IN ALBANIA:
OCCUPAZIONE DI DURAZZO, TIRANA, SCUTARI, DULCIGNO E ANTIVARI


Giunse pure allo Skuzribi la brigata "Tanaro", che passò il fiume a viva forza, superando la resistenza che il nemico opponeva dall'altra sponda, e quindi proseguì su Kavaja e Durazzo, mentre la "Palermo" attraverso il passo di Krabe puntava su Tirana. Durazzo e il passo di Krabe furono occupati il 14 ottobre dalla fanteria italiana dopo accaniti combattimenti con le retroguardie austriache; il 15 fu occupata Tirana e il 31 le truppe giunsero davanti a Scutari, ne bombardarono le difese del Tarabosc e il 1° novembre entrarono in città. Tre giorni dopo, squadroni di cavalleria, seguiti da colonne leggere occupavano Vir Bazar, Dulcigno ed Antivari.
I rapporti dell'Italia con l'Albania si guastarono nel 1919 con la conferenza di pace a Parigi e nel 1920 con una rivolta nazionale albanese. Il 5-6 giugno gli Albanesi attaccano Valona senza alcun risultato. L'11 riprenderanno l'attacco; l'esercito italiano domerà la rivolta; ma a Roma fu deciso di inviare nuove truppe. Il 26 giugno, alla partenza, un contingente di bersaglieri si ammutinerà ad Ancona. Scoppieranno rivolte un po' in tutta Italia in segno di solidarietà con gli ammutinati, e in segno di protesta contro l'occupazione dell'Albania. Il 3 agosto 1920 a Tirana, l'Italia sarà costretta a firmare il trattato italo-albanese, che tra l'altro c'è il rimpatrio delle truppe italiane da Valona.


LO SCIIIERAMENTO DELLE FORZE ALLEATE E NEMICHE IN MACEDONIA


In quei giorni dell'occupazione dell'Albania, la brigata "Spezia" era acquartierata a Prilep, le brigate "Cagliari", "Ivrea" e "Sicilia", giungevano in Bulgaria e con tre squadroni di "Cavalleggeri di Lodi" prendevano sede tra Kustendil e Sofia, mandando in distaccamento a Negotin sul Danubio un reggimento di fanteria, due squadroni di cavalleggeri di Lucca e un gruppo di batterie da montagna.

Più tardi, dopo essere stato sul Danubio, tra Mosna e Lom Palanka, a Filippopoli, a Vidino, a Adrianopoli e a Burgas, le truppe d'Oriente erano concentrate a Salonicco e di loro il III battaglione del 62° fanteria con una compagnia di carabinieri fu mandato a Costantinopoli in servizio di polizia internazionale.
Nel fatidico ottobre del 1918 anche i reparti italiani inviati in Palestina partecipavano alle brillanti operazioni, sotto il comando del generale inglese ALLENBY, e il 10 ottobre entravano in Damasco, L'8 a Beirut e il 26 ad Aleppo.


L'OPERA DEL II CORPO D'ARMATA ITALIANO IN FRANCIA:
LA BATTAGLIA DALL'AISNE ALLA MOSA


Le truppe inviate in Francia nella primavera del 1918 furono quelle del II Corpo d'Armata. Lo componevano L'8a divisione (Brigate "Brescia" ed "Alpi" e il 10° Artiglieria), la 3a divisione (brigate "Salerno" e "Napoli" e il 4° Artiglieria), due squadroni dei cavalleggeri di Lodi, e il II Reparto d'Assalto del MAGGIORE GUASCO. Il Corpo d'Armata era comandato dal tenente generale ALBRICCI, l'Artiglieria del brigadiere CONSO, il genio dal colonnello RICCI, le due divisioni dai generali BERUTO e PITTALUGA.

Prima ad entrare in linea, in un delicato settore delle Argonne fu la 3a divisione, che poi fu sostituita dall'8a nel settore di Vanquois e d'Avoncourt. Entrambe le divisioni fornirono prova di disciplina, di coraggio, di tenacia e di valore, respingendo attacchi nemici ed eseguendo numerosi e brillanti colpi di mano nelle linee avversarie. Nella seconda metà di giugno il Corpo d'Armata fu assegnato alla V Armata e posto a cavallo dell'Ardre tra il 1° Corpo Coloniale e il 5° Corpo Francese.
Le difese del settore assegnato alle truppe italiane erano costituite da una linea d'osservazione che correva dal Bois de Nayreau per Sainte-Euphrasie alla montagna di Bligny fino a Champlat; da una linea di resistenza, che da Vrigny, passando per Bois du Petit Champ e Bois des Eclisses, andava a la Neuville aux Lavris; e da una seconda posizione, che passava per le pendici occidentali del Patis d' Ecueil, attraversava l'Ardre all'altezza di Pourcy e quindi il Bois de Coutron fino alla Poterne; ma tali linee erano così imperfette che richiesero molti lavori, i quali furono eseguiti sotto il tiro incessante delle artiglierie avversarie e nel trambusto di frequenti combattimenti sostenuti dalle truppe.

La prima grande battaglia che il II Corpo d'armata combatté in Francia fu quella di luglio. Dopo una violenta preparazione di fuoco durata molte ore, i Tedeschi sferrarono all'alba del 15 l'attacco, che fu pronunciato in modo particolare da ovest verso est sul lato occidentale del saliente di Bligny ed ebbe carattere di maggiore violenza, sul fronte dell'8a divisione (sinistra del Corpo d'Armata).
Mentre sul tutto il fronte le truppe resistevano efficacemente, il nemico, approfittando dello sfondamento che aveva potuto compiere sulla sinistra italiana, lanciava una forte colonna nella, zona di Champlat e riusciva, nonostante l'accanita resistenza, a passare tra il Bois des Eclisses e il Bois de Coutron, aggirando il primo ch'era difeso da un battaglione italiano e da uno francese. In conseguenza di questo sfondamento, l'8a divisione dovette indietreggiare su Marfaux e il bois de Coutron lasciando però nelle posizioni del Bois des Eclisses alcuni reparti, fra i quali, nelle trincee di Chaumuzy, un battaglione del 20° fanteria (brigata "Brescia") che a mezzogiorno resisteva ancora. Contemporaneamente la 3a divisione occupava l'orlo del Bois du Petit Champ saldando la sua sinistra alla seconda linea, occupata dalla 120a divisione francese che faceva da riserva generale.
Eroico, in questa prima fase della battaglia il contegno del 10° artiglieria da campagna italiano che sacrificò gran parte delle sue batterie per proteggere il ripiegamento delle fanterie; quello del II Reparto d'Assalto che si prodigò in brillanti contrattacchi attraverso il Bois de Coutron in direzione di La Menville; e quello di un battaglione del 20° fanteria, il quale, all'inizio del pomeriggio, assalito da forze di molto superiori, fu costretto a ripiegare su Marfaux, donde, dopo una durissima difesa, ridotto a pochi drappelli si aprì il passo verso Courtagnon.

Alle 14.30, dopo una violenta preparazione di fuoco, il nemico lanciò un'intera divisione d'assalto prussiana contro il Bois de Petit Champ difeso da due battaglioni della "Napoli" ed attaccò vigorosamente il Bois de Vrigny presidiato da alcuni battaglioni della "Salerno". Questi resistettero meravigliosamente, ma i primi, sopraffatti da forze cinque volte superiori, dopo un'accanita difesa dovettero abbandonare l'orlo del bosco. L'estrema sinistra della 3a divisione fu portata sulla linea di colline ad est del vallone di Cournias. Durante la notte l'8a divisione, che aveva subito fortissime perdite, fu portata dietro la 12° francese, ma lasciò in linea tre battaglioni di fanteria e il Reparto d'assalto.
Il giorno 16, attaccando le truppe francesi schierate sull'ala sinistra, il nemico riuscì a farsi strada attraverso il bosco di Coutron e a sboccare a nord-ovest di Nanteuil, facendo di nuovo ripiegare fortemente la sinistra italiana. Un contrattacco di tre battaglioni della brigata "Alpi!" e dell'infaticabile II Reparto d'Assalto e di due reggimenti della 14a divisione francese e la concentrazione del fuoco di tutte le artiglierie disponibili, arrestava prima e respingeva poi il nemico, al quale l'ala destra italiana, nel frattempo, contrattaccando, riprendeva Clairizet.

Il 17 su tutto il fronte dell'Ardre la 3a divisione italiana (destra), la 120a francese (centro) e la 14a francese (sinistra) iniziarono il contrattacco, ma l'azione s' incrociò con un nuovo poderoso attacco tedesco che fu particolarmente violento sul fronte della 120a divisione. Per alleggerire la pressione nemica sul centro la 3a divisione italiana sviluppò un attacco dimostrativo su Courmas e su Bois du Petit Champ. Su quest'ultima posizione si scagliò con grande slancio il 75° fanteria, ma il suo attacco s' incontrò con quello di una nuova divisione tedesca la quale attaccava in direzione del Bois di Ecueil la Maisonette. Il 75° dovette arrestarsi, ma, sostenuto da due battaglioni del 76°, arrestò a sua volta, il nemico.
Nella sera del 18 giugno e nella giornata del 19, le truppe italiane, partecipando all'azione generale di contrattacco iniziata dagli Alleati ad ovest di Reims, guadagnarono terreno sulle colline di riva destra dell'Ardre nel triangolo Sainte Euphrasie-Bonilly-Courmas. L'89° fanteria della "Salerno", con magnifico slancio che gli valse le lodi del generale Berthelot, comandante la V Armata, conquistò una dorsale boscosa ad ovest di Onrezy, particolarmente importante per la difesa degli accessi alla breve pianura di Reims. A sud di Bonilly gli "arditi" italiani, cooperando con le truppe francesi, progredirono nel Bois du Petit Champ, catturando prigionieri. Nella vallata a sud-est di Marfaux elementi italiani rioccuparono il Molino dell'Ardre. Tutta l'artiglieria e tre battaglioni nostri parteciparono alla prima fase dell'azione controffensiva nella regione sull'Ardre. L'eccellente contegno delle truppe italiane in queste sei giornate di aspri combattimenti consentì al contingente di assolvere, in continua unione con le truppe francesi, un importantissimo compito. Nelle posizioni affidate agli Italiani il nemico riuscì ad ottenere soltanto piccoli vantaggi iniziali, in gran parte persi nei successivi contrattacchi. Nella giornata del 23 all'attacco della 2a divisione coloniale su Sainte-Euphraise e il Bois de Vrigny parteciparono alcuni battaglioni del 76° e dell'83° e il II Reparto d'Assalto che con un solo balzo e con magnifico slancio raggiunsero tutti gli obiettivi loro assegnati sullo sperone che dal Bois de Naveau va su Mary-Premecy, catturando una batteria di cannoni, parecchie mitragliatrici e molti prigionieri.

Riposatosi e ricostituitosi, il II Corpo d'Armata verso la metà di Agosto fu prima assegnato alla II Armata nella zona di Verdun, poi ancora alla V, ed il 22 settembre fu messo in prima linea sull'Aisne, tra la X Armata del generale MANGIN e il Corpo coloniale. La sera del 28 l'ala sinistra del Il Corpo passò il fiume in un punto già superato e perciò coperto dalla X Armata avanzante, quindi risalì la riva settentrionale e il mattino del 28 attaccò di fianco la difesa tedesca a nord dell'Aisne. Di slancio le truppe italiane s' impadronirono delle alture e del villaggio di Chavonne e proseguirono quindi nell'avanzata. Nella giornata del 29 fu occupato Soupir e il parco a sud-ovest del paese: nei giorni seguenti, nonostante la resistenza accanita del nemico e l'azione terribile dell'artiglieria germanica, furono fatti altri progressi e il 3 ottobre fu occupata Croix Sant Této.

Un ostacolo formidabile si parò allora dinnanzi alle magnifiche truppe della 3a divisione: il canale Aise-Aisno, fortemente sistemato a difesa; ma all'alba del 10 luglio le truppe italiane riuscirono a superare, dopo sanguinose lotte, l'ostacolo e a riprendere l'avanzata, affermandosi la "Salerno" sull'altipiano di Braye en Laonnois e impadronendosi la "Napoli" di Moussy, di Beaulne, di Chivy e di Verneuil. Nel frattempo la brigata "Brescia", passata a nord dell'Aisne, oltrepassava Pont Arcis e la brigata "Alpi", guadato il fiume sotto il fuoco nemico, espugnava, con, attacco impetuoso, la collina, di Madagascar.
Sotto la spinta vigorosa degli italiani e dei Francesi, il nemico iniziò la ritirata, e il Comando del II Corpo d'armata lanciò la 3a e l'8a divisione all'inseguimento. La sera del 10 luglio la 3a divisione metteva piede sullo Chemin des Dames, seguita il giorno dopo dalle rimanenti truppe del Corpo, che spingeva pattuglie di cavalleria e fanteria oltre il corso dell'Ailette.
Il 12 luglio il grosso degli italiani forzava il passaggio di questo fiume e le fanterie avanzarono per le strade malagevoli della zona paludosa di Sisonne. All'alba del 14 furono occupate Festieux, Montaign e Veslud e a mezzogiorno circa la cavalleria giungeva a Sisonne, seguita più tardi dalle fanterie; che solo a tarda ora della sera riuscivano a scacciare il nemico dalla città.

Le operazioni del II Corpo subirono una sosta di una ventina di giorni. Il 5 novembre fu ripresa l'avanzata e, vinta l'accanita resistenza dei Tedeschi intorno al nodo stradale di Sisonne e a Chivres, superò di slancio la forte linea nemica progredendo in un sol giorno per ben 17 chilometri. Il 6 incontrarono resistenza nella zona dell'Hurtaut, i cui ponti erano stati distrutti, ma, riuscirono a superare l'ostacolo e le avanguardie, squadroni di cavalleria e reparto d'assalto entrarono in Rozoy sur Serre. Altra resistenza tentò il nemico sulla Serre, ma questa fu respinta il mattino del 9. Superata la Serre e poi l'Aube, gl'Italiani entrarono in Marby, Etalle e Chilly.
Procedendo ancora nell'avanzata, durante la quale caddero nelle mani italiane numerosi prigionieri e molto materiale bellico, il mattino dell'11 le avanguardie entrarono in Rocroy lanciando di là punte che raggiungevano la linea della Mosa tra Fumay e Revin. Fu questo l'estremo punto raggiunto dalle truppe italiane in Francia perché lo stesso giorno (11 nov.) cessò la lotta essendo intervenuto l'armistizio.


GLI ITALIANI IN MURMANIA E IN MANCIURIA


Chiuderemo questo notizie sulle imprese degli Italiani fuori d'Italia col dare un breve cenno della parte che ebbero i soldati italiani nelle operazioni degli Alleati in Murmania e in Manciuria. In Murmania fu mandato il colonnello SIFOLA con un contingente di truppe composto dal 4° battaglione del 67° fanteria, di una compagnia di complementi, della 389a compagnia mitragliatrici, della 165a Sezione RR. CC., da un reparto del genio, di mezza sezione di sussistenza e di un ospedaletto da campo. Il piccolo corpo di spedizione dall'Italia si recò a New Castle, donde il 2 settembre del 1918 fu trasportato con nave, inglese a Porto Murmansk, che costituì base d'operazioni. L'inverno fu impiegato nell'organizzazione della base, e, nella primavera del 1919, si iniziarono le operazioni verso il sud alle quali partecipò la "colonna Savoia", della forza di una compagnia, che, partita da Kola il 5 aprile, giunse ad Ozosovero il 4 maggio e il 21 ebbe la parte principale nell'attacco di Medveja, di Gora e di Povienetz, distinguendosi per il suo valore.

Magnifico contegno fu quella colonna italiana nell'avanzata degli ultimi giorni di giugno e in un combattimento contro le truppe bolsceviche. Con la fine di giugno le operazioni furono sospese. Il 9 agosto del 1919 il contingente, richiamato in Patria dal Governo Nitti, si concentrò a Murmansk dove s'imbarcò e il 27 rientrò a Torino dove un anno prima era stato costituito.
Il contingente italiano destinato in Manciuria era costituito da una sezione di CC.RR., da una sezione di artiglieria da montagna, da un battaglione di fanteria e dai servizi
il comandante era il colonnello FOSSINI CAMOSSI. Il piccolo corpo giunse a WIadiwostok il 17 ottobre; il 25 era a Karbin, il 17 novembre a Irkusk e il 21 a Krasnojarazsk. L'inverno passò tranquillo. Le operazioni non cominciarono che a primavera. Il 17 maggio una divisione cecoslovacca, della quale facevano parte due compagnie italiane, attaccò un forte corpo bolscevico di sei reggimenti di fanteria con numerose mitragliatrici, da un reggimento di cavalleria e da bande irregolari. I nostri fanti, sostenuti dalla sezione oli artiglieria da montagna, dopo un'ora di lotta, conquistarono le posizioni nemiche e ne inseguirono i difensori; la sera occuparono Rubenskey; il giorno dopo si scontrarono col nemico a Imbesci e lo sbaragliarono. Il 23 la divisione partì per Narva. A poca distanza da questa città il nemico cercò di sbarrarle il passo, ma battuto prima dall'artiglieria italiana e attaccato poi dai Cecoslovacchi, fu respinto. Un'altra compagnia italiana, la 2a, incorporata in un'altra colonna cecoslovacca, partecipò il 17 maggio, al vittorioso attacco di Sèmenowskoe. Infine, una colonna italiana, composta delle compagnie, di fanteria 3a e 4a, della compagnia mitragliatrici e dalla, sezione di artiglieria da montagna, partecipò con onore il l° giugno, insieme con un battaglione cecoslovacco e uno squadrone di ussari, al combattimento di Alexejevska e il 10 e il 12 alla difesa della testa di ponte sul Leiba. L'8 agosto del 1919 il contingente italiano lasciava la Manciuria e il 2 aprile del 1920 rientrava in Itali sbarcando a Napoli.

Ora lasciamo queste operazioni all'estero dell'esercito italiano; ma prima di riprendere la cronaca sul fronte italiano -dopo la combattuta "battaglia del Piave", ci occuperemo dei drammatici eventi che negli stessi giorni si erano verificati in Russia.

La rivoluzione Russa e la strage dei Romanov

LA RIVOLUZIONE RUSSA E LA STRAGE DEI ROMANOV


1917 - Lo zar Nicola II, la zarina Alessandra, i figli Olga, Alessio, Tatiana, Anastasia, Maria.

Questi fatti, pur non essendo connessi alle vicende italiane, sono invece ugualmente legati per quattro ragioni:
1) L'uscita della Russia dalla guerra accanto agli alleati Francia, Inghilterra e Italia, permise agli Imperi centrali di concentrare in occidente le loro truppe; soprattutto gli Austriaci in Italia per la grande offensiva onde ottenere la vittoria definitiva sulla "traditrice" Italia. La Rivoluzione rappresentò un danno per l'Intesa e quindi per l'Italia, ma anche per i nemici, soprattutto i tedeschi che dopo averla fomentata la rivoluzione, poi non ottennero i risultati sperati. Furono costretti ad impiegare un milione di uomini per tenere a bada quelle repubbliche indipendenti che stavano sorgendo (come l'Ucraina) o per combattere i lealisti nella stessa Russia.
2) Il successo delle forze rivoluzionarie bolsceviche permisero di far aumentare l'ondata pacifista in quasi tutti gli stati europei (perfino nella stessa Austria e Germania), e ovviamente fra questi stati vi era compresa l'Italia. Più che per motivi di lotta di classe, perché molti uomini al fronte e i civili di ogni paese della guerra erano ormai logorati, giunti all'esasperazione. Se nella ex festosa Pietroburgo c'era molta triestezza, nella opulenta Vienna si pativa la fame e il freddo.
3) La profonda tendenza al socialismo rivoluzionario di stampo marxista, fece illusoriamente credere nella lotta delle masse al fine di spezzare le catene dell'imperialismo con la conseguente "dittatura del proletariato". "Il potere delle masse, dalla Russia è estendibile (dicevano i socialisti facilmente incantati dalle prime confuse e apologetiche notizie della rivoluzione) in Europa, in Italia- a tutto il mondo".
4) Infine, la drammatica (o tragica) scomparsa dei Romanov inquietò non poco le corone di alcuni monarchi europei. E se salvarono la testa -ma non gli imperi, questi furono spazzati via- fu solo dovuto al fatto che -a differenza di quella francese, meno ancora quella americana- la "Rivoluzione d'Ottobre" non fu una rivoluzione nazionale; né tanto meno seguì la rivoluzione mondiale. Anzi, finita la guerra, fatta la Rivoluzione, per la presa e poi per il mantenimento del potere dei bolscevichi, la Russia entrò in una profonda crisi, con la originaria rivoluzione marxista profondamente trasformata nel corso dei decenni successivi: la guerra continuò in casa e in quanto a libertà democratiche nei successivi settant'anni di vita, la rivoluzione russa non si potrà per nulla paragonare né a quella francese, né tanto meno a quella americana.

Quella russa iniziata al principio del secolo fece sperare alle masse di tutto il mondo, ma -dopo la guerra- entrata in crisi la civiltà europea- l'illusione della "dittatura del proletariato" si dimostrò del tutto errata, e non riuscì a sopravvivere a quello che già negli anni '20, il '900 era indicato come il "secolo russo".
L'Europa uscita devastata dalla guerra, vinti e vincitori con all'interno una grave crisi politica ed economica non inferiore a quella russa, più che guardare alla Russia e alla sua ideologia socialista, ne partorì invece due di ideologie fortemente nazionaliste: il fascismo e il nazionalsocialismo; che però rimasero in piedi molti meno anni di quella russa; una durò poco più di un ventennio, l'altra poco più di un decennio.
Di entrambi, compresi i mali che i due regimi volevano guarire e che invece aggravarono, avremo occasione di parlarne nei capitoli dei prossimi anni.

L'evento che nel luglio del 1918, sconvolse il mondo fu la "misteriosa" scomparsa di tutti i membri della famiglia imperiale russa -lo zar NICOLA II, la moglie Alessandra e i cinque figli- allora in mano ai bolscevichi.
Gli estremisti di sinistra e il Soviet chiedevano da mesi a gran voce le teste dell'imperatore e della famiglia; i membri del governo esitavano per paura di disgustare gli Alleati. Volevano perfino salvarli, e sondarono il terreno per confinarli in Inghilterra.
Ma gli inglesi rifiutarono: il governo di Lloyd George rifiutò l'asilo al cugino e alla cugina del Re, al fedele e leale Nicola II che aveva sempre respinto qualunque proposta di pace separata avanzata dagli austriaci o dai tedeschi.

Partiamo dall'inizio. Il 7-11 marzo del 1917 (le date sono sempre del nostro calendario e non quello russo) allo sciopero degli operai di Pietroburgo, si unì lo scontento popolare, e nelle numerose manifestazioni che si svolsero, molti militari ammutinandosi si unirono ai dimostranti. Il 15 marzo lo Zar abdica a favore del fratello Michele e viene insediato un governo provvisorio presieduto dal principe LVOV. Ad eccezione del Socialrivoluzionario KERENSKIJ (ministro della guerra) tutti gli altri del Partito Costituzionale Democratico, oltre i bolscevichi, chiedono la fine del conflitto e la pace con gli imperi centrali. Il 16 aprile LENIN rientra dalla Svizzera (sembra perfino favorito dai tedeschi, nella speranza che una rivoluzione violenta avrebbe costretto la Russia a uscire dalla guerra); e il 17 maggio, dall'America dov'era in esilio, rientra in Russia anche TROTSKIJ.
Il 21 luglio Kerenskij diventa primo ministro nel secondo governo provvisorio. Lenin ha con lui dei profondi contrasti fino al punto che è accusato di tradimento da Kerenskij ed è costretto a fuggire in Finlandia.
Il primo movimento rivoluzionario era di ispirazione borghese, e questo il 7 settembre tentò con un generale -KORNILOV- un colpo di stato per esautorare Kerenskij. Che per rimanere in sella chiese aiuto proprio a Trotskij. Ma nel frattempo erano aumentate le diserzioni nell'esercito e la Russia piombò nel caos; continuare -come intendeva fare Kerenskij- la guerra con i soldati che disertavano e rientravano a casa non era più possibile.

Approfittando delle debolezze del governo Kerenskij, rientra così Lenin, che il 23 ottobre con il sorto Comitato Centrale Bolscevico, decide di organizzare l'insurrezione armata. Il 25 ottobre il Soviet di Pietroburgo, presieduto da Trotskij (presidente) forma un Comitato Rivoluzionario armato, mettendo a punto i preparativi della rivoluzione; forti di 150.000 uomini, questi al segnale dovranno impadronirsi dei punti strategici della città.
Il 6 novembre Kerenskij vuole convocare un'assemblea costituente, contrastata ancora da Lenin, che al secondo congresso dei Soviet con la maggioranza bolscevica è lui ad assumere il potere. Il 7 novembre i bolscevichi assumono il controllo delle ferrovie, delle banche, delle amministrazioni; impossessatosi di un incrociatore (l'Aurora) ancorato sulla Neva; questo spara alcuni colpi (a salve). E' l'inizio della rivoluzione russa e la presa del Palazzo d'Inverno. Il governo si dimette, Lenin è proclamato capo del Consiglio dei Commissari del Popolo; Trotskij commissario per gli esteri, Stalin commissario delle minoranze nazionali. Ha inizio il governo dell'URSS: Unione delle Repubbliche Socialiste. Che non sono tutte unite (come l'Ucraina); come non sono uniti i rivoluzionari a Pietrogrado, dove "Guardie Bianche" si battono contro le "Guardie Rosse", e perfino i marinai contro i soldati. Qualcuno ha descritto questo periodo "allucinazione tremens della rivoluzione".

Allucinazione che se non proprio del tutto, un po' ha svegliato i rivoluzionari europei, compresi quelli italiani. Di fare un'altra guerra, per di più civile, i 5 milioni di reduci non se la sentono proprio di fare. Anche se qualcuno proprio con gli scontenti reduci, oltre che per le gravi tensioni sociali (disoccupazione, dissesto economico, rabbia dei reduci, sdegno per gli illeciti arricchimenti) che la guerra aveva fatto nascere, sfrutterà queste frustrazioni e rimescolamento d'ideologie per organizzare una sua ideologia del tutto nuova, e in una forma esasperata e violenta; BENITO MUSSOLINI.
Lui non è un solitario, ma si fa interprete di tutti coloro che pensavano allo stesso suo modo. Che non erano pochi! E fra questi gli ex "combattenti" (senza un lavoro) e in sordina gli stessi "produttori". Alla rivoluzione russa, l'ex rivoluzionario Mussolini non ci crede più.
Sentenziò "le dottrine socialiste sono crollate, i miti internazionalistici caduti, la lotta di classe è una favola".
"perché - dirà Mussolini- non basta essere in tanti, ma si deve essere preparati". "I calli alle mani non bastano per dimostrare che uno sia capace di reggere uno Stato". -"Una rivoluzione si fa in ventiquattrore, ma in ventiquattrore non si rovescia l'economia di una nazione".
"I socialisti commettono un gravissimo errore, credono che il capitalismo ha compiuto il suo ciclo. Invece il capitalismo è ancora capace di ulteriori svolgimenti. Non è ancora esaurita la serie delle sue trasformazioni. Il capitalismo ci presenta una realtà a facce diverse: economica, prima di tutto".
"....La rivoluzione non è il caos, non è il disordine, non è lo sfasciamento di ogni attività, di ogni vincolo della vita sociale, come opinano gli estremisti idioti di certi paesi; (il riferimento alla Russia è chiaro. Ndr) La rivoluzione è una disciplina che si sostituisce ad un'altra disciplina, è una gerarchia che prende il posto di un'altra gerarchia"
(1917, 26 luglio, Il Popolo d'Italia).
Mussolini se ne convincerà ancora di più quando inizia a vedere i pessimi risultati della Rivoluzione Russa. "Bello i soldati uniti al popolo! Bello il collettivismo! Bello la distribuzione delle terre! Male invece i nuovi dittatori statali nelle fabbriche e nelle campagne".


ALBERTINI il direttore del Corriere della Sera così salutò l'avvento "Il Fascismo, ora interpretato; esso é l'aspirazione più intensa di tutti i veri italiani" e aggiunse " ha eliminato per sempre il pericolo socialista".

Torniamo ora in Russia e allo Zar

In quel famoso 14 aprile del 1917, dopo aver abdicato, Nicola Alessandrovitch Romanov (50 enne), Alice Alessandra Fedorovna Hesse Romanova (46enne) e i loro cinque figli, partivano da Zaraskoie Selo, reggia melanconica negli anni fastosi, prigione dorata nei giorni di sventura.
Dopo aver percorso un lungo tragitto, parte in treno, parte in battello sul Tobol, affluente dell'Ob, i Sovrani detronizzati e prigionieri giungevano a Tobolsk : l'antica città della Russia asiatica, popolata di 25 mila abitanti dediti al commercio delle pellicce, scelta dal Governo Provvisorio di Pietrogrado quale luogo di relegazione della famiglia non più imperiale.
L'ironia del destino si accaniva contro le misere vittime. Colui nel cui nome, appena pochi mesi prima, tanti e tanti infelici erano confinati oltre gli Urali, si trovava ora, in mezzo alla sterminata pianura della Siberia gelida e semideserta, ergastolo immenso della più potente autocrazia del mondo.

Durante la dittatura Kerenskyana, la prigionia di Nicola e dei suoi fu mite o almeno sopportabile. Le condizioni dei miseri peggiorarono assai, invece, dopo l'avvento al potere dei bolscevichi di Lenin. I relegati sopportavano ogni umiliazione ed ogni privazione con animo rassegnato. Lo zar deposto uscì dal proprio misticismo abulico solo quando venne a conoscenza della pace vergognosa di Brest-Litowski. Allora l'animo suo, piccolo nella prosperità, grande nella sventura, arse di sdegno. L'imperatore divenuto un povero deportato in Siberia, schernito, ridotto quasi all'indigenza, non aveva mai avuto parole di rancore verso i suoi aguzzini. Ma quando seppe che dai Bolscevichi era stato sottoscritto un trattato ignominioso, che rendeva vano il sacrificio eroico di un milione e settecentomila giovani caduti sul campo della gloria, allora il suo dolore esacerbato e la sua ira ebbero scatti incontenibili di amarezza perfino violenta.

Nella primavera del 1918, i Leninisti giudicarono Tobolsk troppo esposta ad un colpo di mano delle forze antisovietiche ed assegnarono una nuova residenza agli sventurati prigionieri.
I1 26 d'aprile, Nicola e i suoi partivano per il loro ultimo viaggio terreno. Poco dopo, essi giungevano a Ekcaterinburg, sulle falde orientali degli Urali Metalliferi, quasi al confine tra la Russia europea e la Siberia.
Per ironia della sorte in questa cittadina, gli operai del luogo riproducevano in passato l'immagine dello zar a milioni di copie. Infatti, era qui, in questa città mineraria aurifera che sorgeva la zecca imperiale. A fare la guardia alla famiglia imperiale furono scelti a turno proprio i lavoratori più poveri delle fabbriche e delle miniere locali. Una cinquantina che sorvegliavano il caseggiato all'interno e all'esterno dove vi erano piazzate le mitragliatrici.
Là, gli sventurati furono rinchiusi in un modesto edificio requisito a un anonimo commerciante, un certo Ipatief, e da lui la casa prese poi il nome divenuto storico. La circondava un terreno dove, nei pomeriggi miti dell'estate siberiana - la loro ultima estate - Nicola, Alice, la bella Maria dagli occhioni azzurro cielo, Tatiana, Olga, la piccola Anastasia, il povero Alessio ammalato di emofilia, trascorsero insieme le ultime giornate in una familiare intimità contadinesca.
A poco a poco il confino imperiale assunse i tratti più cupi della prigionia. Attorno all'ingresso della casa fu eretta un'alta palizzata, oscurate le finestre, infine obbligati a vivere al primo piano, e con una sola entrata rivolta all'interno. Non esistevano servizi e i Romanov dovevano lasciare le loro stanze e traversare il pianerottolo, passando davanti alle sentinelle che spesso apostrofavano volgarmente le giovani donne.
Esistono impietose fotografie con Nicola II con la vanga in mano guardato a vista dagli ex minatori...

... con le sue figlie principessine (la maggiore, Maria, aveva 19 anni) trasportano terra di riporto su una specie di portantina ad uso carriola.

La famiglia imperiale ricevette tessere annonarie e dovette accontentarsi di razioni uguale a quelle distribuite ai soldati e si dovette arrangiare a coltivare come il più povero contadino russo qualche verdura nell'orto...

... a tagliarsi la legna se volevano scaldarsi

Abbandonati da tutti, vessati, spiati di continuo da biechi occhi nemici balenanti d'odio feroce, quei moribondi ignari avevano ancora il conforto del proprio affetto e della fiducia in Dio.
Frattanto, come sappiamo, i Cecoslovacchi comandati dall'ammiraglio Kolciak marciavano verso la frontiera occidentale della Siberia, dove furono fermati dall'Intesa. L'avvicinarsi delle forze antibolsceviche mise in apprensione il comandante Jurovskij, divenuto dal 4 luglio il capo-carceriere di Casa Ipatief.
Quest'avventuriero sinistro del torbido passato fu forse il massacratore atroce dei sette deportati?
Jurovskij agì di propria iniziativa o si limitò ad eseguire con efferatezza spaventosa gli ordini segreti ricevuti da Mosca?
Per quanto siano assenti le documentazioni ufficiali, noi qui ci atteniamo a ciò che (allora) è poi venuto a conoscenza della stampa mondiale. Di un processo fatto alcuni mesi dopo, con alcune importanti deposizioni, come vedremo più avanti, non si parlò più.

L'eccidio è avvolto in un mistero mai risolto. Esisteva un solo testimone -Medvedev- ma molti hanno trovato nella sua deposizione molte contraddizioni, quindi anche lui non fu ritenuto attendibile (che fra l'altro morì subito dopo, il 25 marzo 1919 - e dopo aver cambiato anche lui bandiera); così tutte le altre deposizioni che furono ritenute dal giudice inquirente testimonianze di seconda e terza mano.
Non sappiamo dunque se effettivamente furono uccisi oppure se partirono per destinazione ignota. I resti trovati nella miniera non erano i cadaveri dei Romanov, ma solo alcuni brandelli di vestiti e alcuni gioielli (che forse non indossavano i Romanov ma erano solo cuciti nella fodera dei vestiti; e chi li bruciò non poteva certo saperlo).
(La migliore ricostruzione con moltissimi documenti, e moltissime fotografie è nel libro "La fine degli zar", di Summer e Mangold della BBC inglese, del 1976, edito in Italia da Rizzoli nel 1979) I due giornalisti sono venuti in possesso dell'unico documento ufficiale della commissione inquirente che si occupò dal 1918 in poi della scomparsa o dell'eccidio dei Romanov.

Benché tristo di natura e acceso d'odio ferino contro gli antichi Zar, Jurovskij non si sarebbe mai arrischiato alla soppressione di Nicola Alessandrovitch e della sua famiglia senza il beneplacito di Lenin. Per il dittatore, circondato dagl'innumerevoli nemici del comunismo, la sopravvivenza del sovrano deportato costituiva un pericolo, non già dovuto alla persona del cittadino Romanov, ma per quanto rappresentava ancora agli occhi delle folle immense rimaste fedeli alla tradizione religiosa e dinastica insieme. Però, un'esecuzione clamorosa andava vietata per via dei risentimenti che non avrebbero mancato di provocare. Così, ad un procedimento pubblico sul genere di quelli di cui rimasero vittime Luigi XVI e Maria Antonietta, il Bolscevismo - ben più perverso del Terrore - preferì l'eccidio segreto affidato (forse) a Jurovskij.

Da parte sua, il sicario non ignorava l'avversione profonda nutrita dal popolo di Ekcaterinburg contro i nuovi dominatori della povera Russia. La vicinanza dei Cecoslovacchi sconsigliava un nuovo viaggio della famiglia non più imperiale, ma consumando l'eccidio dov'essa si trovava, il tristo esecutore temeva la rivolta degli abitanti. Furono concertate perciò tutte le precauzioni lugubri atte ad avvolgere nel mistero uno dei più raccapriccianti misfatti politici.
Insieme con Jurovskij, erano giunti a Ekcaterinburg alcuni suoi complici. Altri furono scelti fra le Guardie Rosse precedentemente addette alla severa sorveglianza dei prigionieri.
Si cominciò col predisporre opportunamente, ad una certa distanza da Casa Ipatief, il pozzo di una miniera abbandonata, impedendo ai contadini delle fattorie circostanti - con la scusa di alcune esercitazioni militari pericolose - di assistere ai lavori.
Venuta la notte del 16 luglio, l'ultima notte dei condannati a presto morire, Jurovskij salì al primo piano dove dormivano gli ignari reclusi, invitandoli a scendere a terreno perché - disse loro - si temeva un assalto delle truppe cecoslovacche.

Ormai rassegnati a qualunque vessazione, Nicola e i suoi si alzarono e si vestirono in poco tempo. Nel frattempo, Jurovskij faceva avvertire le Guardie Rosse di sentinella all'esterno dell'edificio di non preoccuparsi quand'anche avessero sentito dall'interno alcuni colpi d'armi da fuoco.
Intorno all'una del 17 luglio, i moribondi ignari si trovarono riuniti in uno stanza del pianterreno. Nessun presentimento li turbava.
Con indifferenza assoluta, senza che nulla trasparisse dal suo volto cinico e dai suoi atti normalissimi, Jurovskij fece portare alcune sedie: i patiboli per le vittime. Nikulin, un complice, ne portò tre, sulle quali sedettero Nicola, Alice ed il piccolo Alessio, mentre le principessine rimanevano in piedi. Faceva parte del gruppo il dottor Botkin, medico dello zarevitch cui si teneva vicino, una cameriera e due domestici che se ne stavano appoggiati alle pareti. A quelle undici persone si era ridotta la Corte di tutte le Russie, sedici mesi prima la più fastosa corte del mondo.

Tratto un foglio, Jurovskij richiamò con un cenno l'attenzione di tutti e prese a leggerlo, a voce poco percettibile e in gran fretta.
Alice e le sue figlie compresero. Impallidendo mentre il loro cuore cessava quasi di battere, si fecero il segno della croce. Nicola Alessandrovitch chiese invece - Che c'è?
Jurovskij aveva letto la sentenza di morte dei condannati. Estratto la pistola, il sicario la puntò sullo Zar e fece fuoco, abbattendo la vittima nel suo sangue.
Lo sparo fu il segnale della strage.
Apparsi in un attimo alle spalle del comandante, i complici spianarono a loro volta i fucili o le pistole e presero a "sparare nel mucchio".
Il piccolo Alessio fu il secondo ucciso.


Sotto gli occhi spietati dei massacratori si svolgeva una scena atroce. Nello stanzone male illuminato dalle lampade fumose, le pallottole saettavano, rimbalzavano, perforavano le carni e gli scheletri. Il sangue spruzzava, scorreva, stagnava dilatandosi. Si levavano urla inumane, gemiti strazianti, rantoli sempre più fiochi. Ad uno ad uno gli uccisi cadevano sugli uccisi. Pur colpito più volte, qualcuno continuava a dibattersi nell'ultimo spasimo, nei sussulti estremi, abbrancandosi ai cadaveri vicini con le mani già ceree. La cameriera della Zarina si proteggeva con due cuscini, tanto che gli sterminatori la finirono a baionettate e a mazzate inferte sul cranio con il calcio dei fucili. Brandelli di materia cerebrale schizzata sotto ai colpi si appiccicavano al pavimento ed alle pareti. Lo stanzone si riempiva di fumo denso e dell'agro odore del sangue sparso.
Pochi minuti bastarono perché la strage si concludesse, ma lo strazio orrendo dei miseri non era finito ancora.
Avvolte in semplici drappi, le salme crivellate di proiettili di coloro cui furono tributati nella vita terrena i più alti divini onori, lasciarono la casa tragica sopra ad un autocarro traballante.
Trasportati al pozzo della miniera abbandonata, i corpi furono denudati delle vesti, quindi ridotti a pezzi. Su i resti, i congiurati gettarono acido solforico ed altri corrosivi. Non persuasi che ciò bastasse a render le vittime del tutto irriconoscibili, Jurovskij e i suoi ricorsero al fuoco alimentato dalla benzina.
Nel profondo del pozzo tenebroso, la fiamma diabolica arse a poco a poco le carni e le ossa, tramutando tutto in avanzi calcinati o in qualche pugno di cenere. Un solo cadavere tangibile e identificabile (esiste la foto presa quel giorno) fu estratto dalla miniera, quello del corpo di Jemmy, la cagnolina di Tatiana (ma nessun racconto dei testimoni dell'eccidio, accenna mai alla presenza di una cagnolina nella stanza dell'eccidio. Inoltre la cagnolina fu stranamente ritrovata intatta dopo undici mesi e otto giorni che era nel pozzo (si trattò di una tardiva simulazione per far credere che la cagnolina aveva seguito i padroni? Ma i padroni erano veramente morti e poi gettati nel pozzo?).

Compiute in una cupa notte siberiana da un'accolita di uomini ben più feroci delle belve, queste furono - secondo una versione- le esequie rese agli eredi di Pietro il Grande e di Caterina II.
Si disse che le reliquie delle misere vittime, riesumate da ufficiali fedeli e segretamente trasportate altrove, dopo lunghe peregrinazioni furono consegnate al granduca Nicola Nicolajevitch, vissuto fino al 1919 nel suo rifugio di Jalta (Crimea) e preso poi a bordo della nave britannica Nelson che lo condusse a Genova. Sebbene più volte interrogato a questo proposito, l'antico generalissimo zarista si spense ad Antibo nel 1929 senz'aver fatto alcuna rivelazioni di sorta (forse a quelle reliquie lui non dava nessuna importanza perché sapeva ben altre cose).

Sorsero poi, intorno allo "zarevitch" (Alessio) e ad altri membri della famiglia imperiale (come quella di Anastasia) leggende romantiche simili a quelle messe in giro in Francia sul conto del figlioletto di Luigi XVI e di Maria Antonietta. Le rivelazioni sull'eccidio giunte alla luce con il passar del tempo, hanno spento ormai le ultime speranze. Come tutti i suoi familiari -fu la versione- anche il piccolo Alessio trovò la morte nell'eccidio di Ekcaterinburg.

Di Nicola Nicolajevitch, altri parenti del sovrano trucidato ebbero la buona sorte di sfuggire al Terrore giustizialista. Alcuni di loro s'imbarcarono sopra un piroscafo di loro proprietà che batteva la vecchia bandiera dei Romanov. Quel nomade rifugio dei legittimisti fu per qualche tempo, fin quando durò la speranza della restaurazione, uno Staterello autonomo: l'impero zarista ridotto a pochi metri quadrati di superficie galleggiante (Ma non si può escludere che a bordo, irriconoscibili, e con chissà quali compiti, ci fossero tutti i componenti della famiglia imperiale)

Dell'eccidio, i russi bianchi che arrivarono a indagare pochi giorni dopo a Ekaterinburg e che ebbero un anno per studiare la scena del delitto, non trovarono nessun corpo e nessuna prova schiacciante se non qualche foro di pallottola nella famosa stanza, qualche macchia di sangue e pochi bruciacchiati frammenti di vesti e di gioielli imperiali alla cava.
Il giudice SERGEEV quasi alla fine delle indagini scrisse "io non credo che lo zar, la sua famiglia e chi era con loro siano state uccise quaggiù" (Dicembre 1918). Quando fu esonerato dal suo compito, lasciò al suo successore, una massa di carte con le varie testimonianze raccolte e le scrupolose indagini da lui fatte.
Mentre Sir CHARLES ELIOT, alto commissario inglese e console generale in Siberia, uno dei due diplomatici di grado più elevato in Russia, uomo di straordinaria cultura, inviato con la precisa istruzione di vedere con i propri occhi e di dare un proprio giudizio sull'andamento delle cose, indagando sulla strage, inviò in codice il suo primo cablogramma a Londra al ministro Balfur, riferendo:

"Il mistero circonda il destino degli zar, che secondo i bolscevichi è stato fucilato qui la notte del 16 luglio, mentre alcuni tra i funzionari di grado più alto e meglio informati sono convinti che Sua Maestà Imperiale non sia stata uccisa ma portata via e data in custodia ai tedeschi, e che la storia dell'assassinio sia stata poi inventata per spiegarne la scomparsa. Il funzionario incaricato dell'attuale governo (i Bianchi) di indagare sul delitto mi ha mostrato la casa dove fu rinchiusa la famiglia imperiale e dove Sua Maestà Imperiale si dice sia stata fucilata. Ha respinto (Sergeev) come montature tutte le storie riguardanti la scoperta dei cadaveri, e le confessioni dei soldati che avrebbero partecipato all'esecuzione…. E' opinione generale che l'imperatrice, il figlio e le quattro figlie non siano stati uccisi ma trasferiti, il 17 luglio, a nord o a ovest. La storia che li vuole bruciati in una cava sembra essere una amplificazione del fatto che è stato trovato un mucchio di cenere, residuo evidente di un grosso mucchio di abiti. In fondo alle ceneri c'era un diamante….e poiché si dice che una delle granduchesse avesse cucito un diamante nella fodera del vestito, si è ritenuto che qui sono stati bruciati i corpi della famiglia imperiale.
Il 17 luglio un treno con le tendine abbassate partiva da Ekaterinburg per destinazione ignota: si crede che a bordo si trovassero i membri della famiglia imperiale. Sembra dunque probabile che la famiglia imperiale si sia travestita prima della partenza" - Sir Charles Eliot.

Fu il primo e ultimo resoconto ponderato di un osservatore inglese eminente e qualificato. Ed apprezzò indubbiamente il lavoro fatto da Sergeev, altrimenti a Londra avrebbe segnalato una critica professionale sull'operato del giudice.
Se anche qualcuno soltanto dei dubbi da lui espressi è fondato. La versione ufficiale della fine dei Romanov va a pezzi.

Vale inoltre la pena riesaminare i vari indizi che Eliot ritenne eloquenti. Nel vestibolo furono (dimenticate dagli assassini se assassinio ci fu) trovate lunghe e grosse ciocche di capelli non di una persona sola ma appartenenti a tutte e quattro le granduchesse. E il colonnello Rodzjanko che faceva parte della missione di Eliot, trovò e scrisse che "nel caminetto fu trovata anche parte della barba (molto rappresentativa) dello zar, che è stata conservata". Il sacerdote del luogo, che aveva visitato la famiglia imperiale quando mancavano solo 48 ore alla loro scomparsa, afferma che le ragazze avevano ancora i capelli lunghi fino alle spalle, e che lo zar pur avendo ancora la barba, "sembrava spuntata torno torno", come se avesse sospeso in quel momento il taglio all'arrivo improvviso del sacerdote.
Ed è strano che il taglio dei capelli e della barba abbia coinciso a poche ore prima dalla loro scomparsa. E' coerente invece l'ipotesi di un tentativo di mutare aspetto prima della evacuazione, essendo i Romanov ben note figure pubbliche.
Sergeev inoltre osservò, riflettendo, che non poteva essere veritiera la versione che i Romanov -secondo la versione dei partecipanti all'eccidio, erano stati massacrati dentro una stanza che misurava 4 metri per 5. In quello spazio avrebbero dovuto affollarsi 23 persone, undici vittime con tre quattro sedute e dodici killer in piedi. Vale a dire che i Romanov e i loro giustizieri erano ad una distanza troppo ravvicinata; troppa folla per un'esecuzione di massa, fra l'altro nel panico e nella confusione, gli stessi esecutori avrebbero corso il serio rischio di buscarsi una pallottola di rimbalzo. Nelle pareti, nelle porte e nel pavimento furono trovati 27 fori di pallottole, molti contenente ancora il proiettile. Nessuno sparerebbe in una stanza del genere 27 colpi d'arma da fuoco. Sergeev fece staccare frammenti di muro, di pavimento e le porte. E se i proiettili che avevano aperto questi fori erano passate prima attraverso dei corpi, le stesse pallottole e nei fori dovevano esserci necessariamente tracce di sangue. Che non c'erano. Sergeev mise dunque in chiaro quello che sembrava un mistero.

Ma circa un mese dopo, il 23 gennaio 1919, Sergeev, che era un bolscevico incaricato dai Bianchi di indagare (e convincersi che non essendo morti presto si sarebbero fatti vivi) imponendosi poi i bolscevichi Rossi, fu rimosso dall'incarico e le indagini passarono a SOKOLOV. Passarono poche settimane e Sergeev scomparve dalla scena; fu, si disse, "giustiziato dai bolscevichi rossi".
Alla fine i Bianchi, perdendo terreno, impotenti nel coprire di vergogna i Rossi accusandoli di essere regicidi e degli assassini di donne e fanciulli. Deboli per fare elevare i Romanov al rango di martiri. Infine timorosi di "sparire" come Sergeev, accettarono la versione dell'uccisione dell'intera famiglia zarista, e neppure loro proseguirono le indagini: quelle di Sergeev finirono solo lette con tanta curiosità dal suo sostituto SOKOLOV, e anche lui si fece una chiara opinione che tenne tutta per sé.

Il commento di un famoso giornalista del Times, WILTON (ma dalla scheda personale tuttora conservata dal "Times" risulta che era di fatto un agente segreto inglese con l'approvazione del segretario di Stato americano) che si recò in Russia e a Ekaterinburg a indagare sulla verità dell'eccidio; a conoscenza dell'opinione di Eliot, dei risultati dello scrupoloso Sergeev, passati poi a Sokolov, scrisse in patria una frase sibillina: "Comandante Lasies, anche se lo zar e la famiglia imperiale fossero vivi, è necessario dire che sono morti!".

Il "mistero" era comodo ai Bianchi, ai Rossi, e a quanto pare anche agli occidentali per infangare entrambi i due gruppi di bolscevichi che si contendevano il potere.
Il "Sunday Times" si adeguò, e nel 1920 gli articoli di Wilton sull'eccidio dei Romanov, godettero della piena autorizzazione di Printing House Square ed ebbero un peso considerevole nella stampa nel resto del mondo.
Anzi molti lo contornarono usando la fantasia. Janin generale e capo della missione francese in Siberia inviò il suo resoconto; e chissà da dove preso:
"Nicola fu ucciso a colpi di rivoltella e di fucile da più uomini, agli ordini di un certo Biron che fu il primo a sparare. Lo zarevic stava male… rimase inebetito al vedersi uccidere sotto gli occhi la madre e le sorelle. L'imperatrice e le granduchesse furono uccise dopo aver subito violenza per giorni e giorni in varie occasioni e in molti modi diversi. E si dice che il Biron precipitandosi fuori abbia detto a numerosi testimoni: "Ora posso morire, mi sono fatta l'imperatrice".
(il tutto in una stanza metri 5 per 4, con alcuni prigionieri legati alle sedie, insieme a 13 assassini, con 4 o 5 di loro che violentano le donne, e che alla fine sparano 27 colpi di pistole Colt 45 e Nagant 7,62.

In un altra resoconto si legge che fu lo zar l'ultimo a cadere e non il primo "…essi (i testimoni, ma quali?) affermano che i prigionieri furono prima legati alle sedie, dopo di che i soldati fecero violenza, in particolare alle granduchesse….Le ragazze furono violentate e lo zar, incatenato, fu costretto a guardare la scena. Lo zar implorò che almeno la zarina fosse finita senza ulteriore oltraggio".

Così i vari libri, che in seguito uscirono, seguitarono a parlare della versione ortodossa del barbaro assassinio dei Romanov.
Anche perché la campagna antibolscevica e antisemita in occidente era appena iniziata.

SOKOLOV abbiamo detto sopra, prese in mano le indagini a Ekaterinburg piazzandosi dentro un modesto ufficio allestito dentro il vagone ferroviario n.1180 parcheggiato su un binario morto di Omsk. Con sé aveva tutto l'incartamento delle indagini di Sergeev, passatigli dal generale dell'Armata Rossa, MICHAIL DITERICHS, un lealista, imbevuto di fanatismo religioso e monarchico, si atteggiò a salvatore della Patria, ed era convinto che la fonte di ogni male erano in blocco socialisti ed ebrei.
A Sokolov gli tagliarono poi i finanziamenti e non comunicò mai nulla a quel ministero della Giustizia russo che navigava dentro le complesse correnti politiche bolsceviche bianche e rosse. Sokolov ci rimase male e solo cinque anni dopo quando anche lui finì in esilio politico perché compromesso con i Bianchi, forse per salvare la propria pelle, pubblicò ed espose il suo lavoro in un libro-dossier "Inchiesta giudiziaria sull'assassinio della famiglia imperiale russa". Dal titolo si comprende subito che i risultati del suo lavoro non erano sfavorevoli alla tesi "massacro" ma che questa volta non fa ricadere ai Rossi ma ai Bianchi e agli ebrei. Ovviamente omette tutta quella massa di documenti di Sergeev che lui si era accuratamente letti e omette pure le sue ulteriori indagini, che indicavano una conclusione ben diversa dal libro. Scrisse cioè un castello di prove tutte discutibili; ma era ciò che volevano i bolscevichi Rossi. Loro e il mondo non vedendo ricomparire la famiglia imperiale messa in salvo dai Bianchi; iniziarono ad accusare gli stessi Bianchi dell'eccidio: per disfarsi di questa corrente, per cattivarsi gli ex zaristi, e per eliminare un'altra corrente a loro ostile, gli ebrei.

Sergeev era dei Bianchi ed era ebreo "di sangue, di carne e d'animo" "e così i suoi confratelli" (scrisse Diterichs); Trotskij era ebreo; ed erano ebrei quasi tutti i capi delle operazioni a Ekaterinburg. Ed ebrei erano tutti coloro che contrastavano o lottavano contro i bolscevichi leninisti.

Ma l'uomo che Diterichs ha messo al posto di Sergeev, cioè SOKOLOV (secondo Kerenskij) era pure lui un monarchico devoto, affiancato da un altro monarchico Bulygin. Ma dopo la presa del potere dei bolscevichi i due sparirono dalla circolazione la seconda settimana di luglio 1919, portandosi dietro il "libro- inchiesta", alcuni dei reperti definite "reliquie", e una grande borsa di documenti. Con la fantomatica (falsa) verità.

SOKOLOV ricompare in una singolare circostanza nel 1923.
In America Henry Ford, il magnate dell'automobile, va sotto processo per un'accusa di antisemitismo rivoltagli da un gruppo sionista. Avvicinato da Boris Brasol presidente della Società Nazionale Russa, lo avvertì che Sokolov con le sue ricerche e il suo libro gli sarebbero state utili alla sua tesi.
Secondo i documenti del servizio segreto americano, usciti dalla lista dei segreti di Stato soltanto nel 1972, il famoso "libro inchiesta" di Sokolov:
"…dimostrava inequivocabilmente che l'assassinio della famiglia imperiale era stato voluto dagli ebrei e che l'uccisione materiale era stata eseguita da un gruppo di uomini composto tutto da ebrei…salvo tre persone, e conoscendo le idee di Henry Ford sugli ebrei e i suoi mezzi illimitati, Brasol concepisse il progetto di parlargliene, sapendo che Ford l'avrebbe usata come propaganda antisemita e che nello stesso tempo le fazioni monarchiche russe ne avrebbero ricevuto una strepitosa negativa pubblicità in tutto il mondo, compresa quella parte di Russia che stava lottando contro il bolscevichi leninisti".

Il complotto piacque a Ford e furono mandati in Europa alcuni suoi dirigenti per incontrare Sokolov. Incontro che avvenne a Parigi, presenti il suo protettore principe Orlov, un colonnello americano (Lydig) e un corrispondente del "Times"(Fullerton). Invitato da Ford in America, Sokolov vi giunse con il suo protettore e incontrarono nel suo quartier generale il magnate dell'automobile a Dearborn, nel Michigan, per le trattative. Far da loro stendere un memorandum "dove si confermava il fatto che l'assassinio era stato progettato ed eseguito dagli ebrei" e per ricevere in consegna il dossier che Ford avrebbe fatto pubblicare con grande risonanza in America (Il Dossier si trova a tutt'oggi negli archivi Ford).

Ma proprio durante questo incontro accadde qualcosa di drammatico. Questo è il resoconto del servizio segreto americano:
"Proprio nel momento in cui Ford intervistava l'ex giudice Sokolov e Orlov, gli giunse un biglietto del granduca Nikolaj (cugino dello Zar, ex comandante in capo dell'esercito russo) che lo avvertiva che in anticamera c'era il suo portavoce con delle informazioni della massima importanza. Ford uscì nell'anticamera, s'incontrò con un uomo di nome Borodigan, inviato dal granduca con l'incarico di dirgli e avvertirlo che aveva saputo che i documenti che stavano per essergli consegnati erano completamente falsi".
Non sappiamo il seguito. Sappiamo però che il libro-dossier non uscì. Sappiamo pure da un dirigente Ford che "…Sokolov divenne nei rimanenti giorni, estremamente nervoso e ipersensibile e fu fatto visitare da uno degli ospedali di Ford". Poi si affrettarono a congedarlo rispedendolo a Parigi.
Una settimana dopo il rientro Sokolov moriva, e la sua morte non è priva di ombre.
Due mesi dopo moriva Wilton (quello del "Times" che aveva scritto "anche se lo zar e la famiglia imperiale fossero vivi, è necessario dire che sono morti"). Ed erano già morti nei precedenti mesi, gran parte dei magistrati che avevano preso parte all'indagine (quella "vera") di Sergeev e di Sokolov.

Quest'ultimo riposa nel cimitero di campagna di Salbris, a sud di Parigi. Sulla pietra tombale vi è una scritta "Sokolov, Giudice Supremo che si assunse l'inchiesta sull'assassinio della famiglia imperiale russa".
L'epitaffio tombale finale dice "La tua Verità è Verità Eterna".

Ma delle due verità di Sokolov, noi non sappiamo quale sia quella vera.

Bibliografia:

Diterichs, generale Michail Kost: "Ubiistwo tsarskoi sem'i i chlenov Doma Ranonov na Urale", 2 vol. Vladivostok, Accademia Militare, 1922.
Eliot John: "Fall of Eagles", BBC, Londra 1974
Sokolov Nicolas, "Enquete jiudiciarie sur l'Assassinat de la Famille Imperiale", Parigi 1929. ("l'indagine era uno spreco di tempo")
Antony Summers e Tom Mangold, La fine degli zar, Gollancz Londra, 1976; in italiano Rizzoli 1979, con documentazione fotografica dei reperti, documenti, foto (48) dei protagonisti, della stanza dell'assassinio, delle pallottole, del dossier di Sokolov, e altro

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Lasciamo la Russia e torniamo in Italia, dopo la Battaglia del Piave
e dove si sta discutendo se avviare in breve tempo una grande offensiva,
oppure rimandarla alla primavera del prossimo 1919.

ma prima diamo uno sguardo all'esterno dell'Italia


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