Quando conquista il potere (1922) Mussolini
intuisce la crescente incisività
di questo nuovo mezzo di comunicazione.
E lo usa spregiudicatamente per sostenere la sua politica
IL CINEMA, GRANCASSA
DEL REGIME FASCISTAdi MARIA GRAZIA MAZZOCCHI
più avanti LA NASCITA DI CINECITTA'
Quando nel 1922 Mussolini prende il potere in Italia, subito afferma pubblicamente di ritenere il cinema “l’arma più forte dello Stato”. Già allora, quando il sonoro era ancora di là da venire e la produzione italiana era scarsa e di non eccelso livello, con la sua ben nota “lungimiranza fascista”, il duce aveva capito l’importanza dell’immagine per fare presa sul popolo. Eppure il regime non cercò mai di asservire totalmente il cinema alla propaganda della sua ideologia, come avrebbe invece fatto il nazismo. Grazie anche all’intelligente consiglio di alcuni responsabili politici, in primis Luigi Freddi, Mussolini lasciò al cinema italiano la possibilità di realizzare pellicole con sufficiente autonomia, tenne leggera la scure censoria e si limitò a controllare i documentari didattici e i cinegiornali educativi.
Egli imbocca così una via italiana al cinema che permetterà a registi come De Sica e Visconti, in un certo senso anche a Blasetti, di non sentirsi troppo frustrati e di preparare, già alla fine degli anni Trenta, il neorealismo del dopoguerra. I film di evasione, quelli storici, quelli romantici, non interessano più di tanto il partito, che invece ci tiene ad esportare nel mondo un’immagine vincente dell’Italia, anche attraverso i suoi lungometraggi. Diverso è il discorso per quanto riguarda l’informazione, che viene proiettata in tutti i cinematografi prima di ogni spettacolo, e alla quale è affidato il compito di mostrare alla popolazione i fasti del regime.
Nel 1923 nasce L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE) per la produzione di documentari e, soprattutto, di cinegiornali. Tutta la produzione LUCE è tesa a fornire al pubblico sia italiano che straniero una documentazione precisa delle imprese e dei successi dell’Italia fascista.
Fino al 1931 i cinegiornali sono muti. Con l’avvento del sonoro, le parole pronunciate enfaticamente e la musica acquistano un’importanza fondamentale nel sottolineare le immagini, anzi a volte sono proprio le parole che danno senso ad immagini banali, magari anche riciclate.
La grandezza e il valore del duce, i progressi dell’Italia, l’aumento di produttività dell’industria e del grano nei campi, il prestigio in campo internazionale, sono i temi ricorrenti in tutti i cinegiornali.
L’Italia è il Paese nel quale si vive onestamente, dove tutti lavorano, dove le famiglie sono numerose e serene, dove insomma tutto va bene… perché come un buon pater familias il duce veglia sulla nazione: le disgrazie, la delinquenza, la violenza, sono sempre mostrate come brutture che possono avvenire in altri Paesi, ma dalle quali noi siamo fortunatamente immuni. Ampio spazio è sempre dedicato alle inaugurazione, ai taglio di nastro o alla posa della prima pietra, alle strette di mano tra personaggi illustri, ad ogni campagna lanciata dal partito, così come alle imprese sportive, alle prove atletiche, alle vittorie italiane in campo internazionale. Durante la guerra d’Africa si vedono gli indigeni stringersi grati attorno alle truppe italiane, apportatrici di benessere e di civiltà… Dal 1940 al 1943 i cinegiornali si prefiggono tre scopi ben definiti: mostrare la perfezione dei nostri armamenti, lodare la vittoriosa esecuzione delle nostre imprese belliche, prevedere l’inevitabile sconfitta del nemico.
Un tema particolarmente importante è quello che riguarda l’immagine del duce. Lui, l’artefice di ogni successo, l’incarnazione di tutti i valori dello Stato, il solo responsabile del bene del Paese, è mostrato sempre sicuro di sé, forte, robusto, un punto di riferimento per tutti sia quando passa in rassegna le truppe che quando visita un ospedale, falcia il grano o stringe la mano ad un capo di Stato straniero. Quando declama un discorso, la sua posa e la sua intonazione, le lunghe e sapienti pause tra una parola e l’altra, sono un invito a nozze per riprese enfatiche e glorificanti.
Solo dopo la tragedia del 1943 la sua immagine si appanna, e neppure i cinegiornali possono nascondere la stanchezza dell’uomo, la sua delusione e la rassegnazione con cui compie i gesti ufficiali di sempre: la rivista delle truppe repubblichine, il taglio di un nastro, il saluto a un gerarca nazista. La produzione LUCE comprende anche numerosi documentari, destinati alle riunioni politiche, alla didattica, spesso anche al normale pubblico delle sale cinematografiche. I titoli sono molto illuminanti e vanno da “Mussolinia” a “Dall’acquitrino alle giornate di Littoria”, a “Nell’agro pontino redento” e “Nella luce di Roma”. Per quanto riguarda invece la produzione cinematografica indipendente, negli anni che vanno dal 1923 al 1929, prima dell’avvento del sonoro, i produttori italiani cercano di riprendere le fila interrotte dalla I guerra mondiale, e realizzano una serie di film fastosi in costume: è del 1923 “Quo Vadis?”, del 1924 “Cirano de Bergerac”, del 1926 “Maciste all’inferno”. La storia passata è vista come preparazione all’avvento del fascismo, e i grandi avvenimenti storici sono volentieri mostrati come precorritori dei fasti dell’Italia mussoliniana.
Queste pellicole non riscuotono però il successo sperato, e il cinema italiano stenta a trovare la via per conquistare il suo pubblico, tutto preso dall’ammirazione per il cinema straniero, soprattutto americano, cosicché nel 1926 vengono prodotti solo venti lungometraggi italiani. Va ricordato, del 1929, il primo grande film fascista, “Sole”, per la regia di Alessandro Blasetti. Esso è incentrato sui temi relativi alle bonifiche delle paludi pontine e ci mostra grandi scenari naturali colti attraverso belle fotografie, mentre anche le nuove angolazione delle riprese rendono questo film degno di essere menzionato. Molto lodato dai critici, “Sole” è però completamente ignorato dal pubblico. Nello stesso filone ispirato al mito del buon contadino, si collocano altri film come “Forzano”, “Quattro passi fra le nuvole”, “Selvaggio”, “Strapaese”, che riprendono le campagne per l’aumento della produzione agricola e criticano il capitalismo basato sulla rendita fondiaria dei grandi proprietari terrieri. La buona e sana vita contadina esce vincente dal confronto con la logorante vita di città. L’avvento del sonoro apre una nuova era nella cinematografia italiana.
Alla fine dell’anno una trentina di sale si sono già dotate delle moderne apparecchiature e nel giro di cinque o sei anni tutti i cinematografi in Italia offrono film parlati. All’inizio non mancano comunque le difficoltà, per offrire al pubblico una traduzione accettabile dei film stranieri: il doppiaggio presenta ancora molti problemi tecnici, e si tenta addirittura di rifare i film americani con attori italiani! Il personaggio fondamentale dell’industria cinematografica degli anni Venti è l’industriale Stefano Pittaluga che, nel 1931, produce addirittura il 90% dei film italiani, col marchio Pittaluga Cines. Egli riesce anche a fare approvare una prima legge protezionistica a sostegno del settore (ne seguirà una seconda nel 1933), ma non riesce a goderne i benefici effetti poiché muore poco prima della sua entrata in vigore.
La Cines continua comunque, sotto la direzione di Emilio Cecchi, la produzione di film con registi di valore come Blasetti, Camerini, Bragaglia, e autori come Pirandello e Alvaro, ponendosi come punto d’incontro tra cinema e cultura: fino al 1933, anno in cui viene acquistata da Carlo Roncoroni.
Produttori come Gustavo Lombardo, Giuseppe Amato e Angelo Rizzoli sono interessati soprattutto a film commerciali, con grande successo di pubblico. Nel 1932 Mussolini inaugura la prima Mostra del Cinema di Venezia, il festival che avrebbe contribuito molto al prestigio della cultura italiana nel mondo, portando a girare in Italia registi come Max Ophuls, Abel Gance, Jean Epstein. A Venezia, a testimonianza della notevole autonomia di giudizio della commissione giudicante, riceve un premio anche Jean Renoir per “La grande illusion”. In questo periodo si affermano le case produttrici Lux, Titanus, ERA, mentre lo Stato continua la sua opera di sostegno istituendo una Direzione Generale per la Cinematografia guidata da Luigi Freddi. Pur provenendo dalle fila del partito, Freddi sostiene idee liberali. Egli è infatti convinto che lo Stato debba sostenere il cinema senza costringerlo entro i ristretti argini dell’ideologia fascista. Critico del metodo coercitivo applicato alla decima musa dal nazismo, Freddi incoraggia un cinema che non entri in conflitto con le tematiche di partito, ma che si rivolga invece a temi d’evasione, a imitazione del cinema americano. E’ il momento dei film coi telefoni bianchi, delle storie sentimentali a lieto fine, degli attori che riscuotono grande successo di pubblico.
Quando nel 1935 gli studi della Cines vengono distrutti da un terribile incendio, Freddi coglie l’occasione per realizzare il suo sogno di una Hollywood italiana, e fonda, alla periferia di Roma, “Cinecittà”. Si devono a Freddi anche l’istituzione di un Centro Sperimentale di Cinema e la nascita della rivista “Bianco e Nero”, veri vivai di giovani talenti. Tra le altre riviste di critica cinematografica ricordiamo: “Film”, “Lo Schermo”, e soprattutto “Cinema”, diretta prima da Luciano De Feo, poi da Vittorio Mussolini, e infine da Gianni Puccini. Si può dire che fino al 1938, anno in cui diventa più stretta l’unione tra Mussolini e Hitler, il fascismo segue da vicino il cinema italiano, ma interviene più per sostenerlo che per sottometterlo: si limita a controllare che i film non promuovano comportamenti immorali e che non presentino situazioni in contrasto con la cultura fascista, ma per il resto preferisce porsi come osservatore che come padrone.
Sono di questi anni molti film comici, anche dialettali, e si affermano in questo periodo attori come Petrolini, Vittorio De Sica, Totò, in quelle commedie popolari che precedono il neorealismo del dopoguerra. Sempre molto ricca la vena di registi come Blasetti (“1860”, “La tavola dei poveri”), Camerini (“Gli uomini, che mascalzoni”, “Il signor Max” “Il cappello a tre punte”), Brignone (“Passaporto rosso”, “Sotto la croce del sud”), ecc… Nei primi anni della seconda guerra mondiale, ai successi bellici corrisponde un grande fiorire di pellicole e una crescente affluenza di pubblico. Si affermano nuove tendenze, ispirate in parte al teatro del Novecento, in parte alla letteratura realistica americana. Accanto a Blasetti con “La cena delle beffe” troviamo Antonioni, De Sica regista con “I bambini ci guardano”, Soldati con “Malombra”, Luchino Visconti con "Ossessione"; si mostrano ora alcuni problemi che prima erano sempre stati tenuti ben lontano dall’obiettivo della macchina da presa. Nei mesi bui della Repubblica di Salò la produzione cinematografica continua “come se niente fosse”, anzi proprio per far sì che “tutto sembri come sempre”. Tra i molti film prodotti, ben pochi se ne possono ancora ricordare: forse “Aeroporto”, di Pietro Costa, soprattutto perché su questo film fu esercitato un diretto controllo da parte della censura nazista.
Un cenno a parte merita il filone dei film realizzati a partire dal 1935 sulle conquiste coloniali in Africa: vi si sentono influssi del cinema statunitense e di quello francese, ma soprattutto vi si cerca di mostrare il valore dei conquistatori italiani, che portano ai poveri selvaggi i doni della moralità e del benessere. Ricordiamo: “Il cammino degli eroi” di Corrado D’Errico, “Sentinelle di bronzo” di Romolo Marcellini e “Jungla nera” di Jean Paul Paulin. E’ del 1938 “Sotto la croce del sud”, di Guido Brignone, il film che esalta la possibilità di rinnovamento interiore nell’esaltante esperienza di vita nel continente africano.
Va infine ricordata la produzione cinematografica dei giovani universitari dei GUF, anche se in gran parte è andata perduta. Il ruolo degli intellettuali all’interno della rivoluzione fascista, ancora in marcia verso il superamento delle realtà piccolo-borghesi, si esprime in diversi campi all’interno dei circoli universitari di varie città italiane. Esce nel 1932 a Venezia la rivista di critica cinematografica “Il Ventuno”, più tardi vedono la luce in Emilia Romagna periodici come “Architrave” e “Spettacolo”. Facendo cinema, i giovani dei GUF, sempre molto attenti al cinema francese, si richiamano anche al cinema sovietico soprattutto per quanto riguarda le strutture del montaggio, le inquadrature, i contrasti posti a sottolineare l’idea sottostante, che è sempre e comunque l’affermazione dell’ideologia fascista.
di MARIA GRAZIA MAZZOCCHI
Bibliografia
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il direttore di
Storia
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NASCITA DI CINECITTA'
NASCE IL CINEMA ITALIANO
Fino al 1935 l'interesse del governo per il cinema di fiction è pressoché nullo. Gli italiani quando non seguono i bollettini di guerra si distraggono con i film del genere detto dei "telefoni bianchi". Ma dal 1935 l'attenzione governativa, pur continuando a privilegiare la propaganda diretta, si rivolge anche all'altro cinema.
Con il R.D.L. del 21 gennaio 1935 l'Istituto LUCE dà vita all'Ente Nazionale Industrie Cinematografiche (ENIC). L'Ente, dotato di un capitale azionario di 2 milioni è controllato al 90% dal LUCE stesso. L'ENIC è sostanzialmente la messa in atto del progetto Pittaluga.
E' Luigi Freddi, passato alla storia come eminenza grigia del Cinema di regime, ad organizzare le fila di una più ambiziosa proposta di cinema di Stato.Nasce l'idea di Cinecittà che Mussolini inaugurerà nel "Natale di Roma" del 1937.
All'epoca Cinecittà rappresentava quanto di meglio esistesse in Europa in questo campo.Intanto nel 1936, grazie all'art. 4 del R.D.L. del 24 settembre l'Istituto Luce aveva cessato di essere alle dipendenze del Capo del Governo per passare a quelle del Ministero per la Stampa e Propaganda. Non molto tempo dopo si comincerà a costruire la sede del Quadraro. E più o meno nello stesso periodo nasce il Centro Sperimentale di Cinematografia.
Il circuito sognato da Pittaluga era stato messo in pratica dal regime. Se lo Stato fascista non riuscirà mai a creare una vera e propria cinematografia fascista, creerà però stabili strutture tecniche in grado di funzionare a pieno ritmo. Con la creazione dei più grandi teatri di posa europei l'Italia è in grado di riprendere le proprie gloriose eredità di primato nelle super produzioni.
Il LUCE aveva già consolidato una propria esperienza con gli inviati speciali nei primi anni Trenta. Le imprese di Craveri in Cina (dove l'operatore aveva sfiorato la morte) i reportage di Guelfo Civinini dall'Abissinia, come la si chiamava allora, erano stati alcuni fra i fiori all'occhiello dell'Istituto. Ma con le guerre il lavoro degli operatori si nazionalizza e si stabilizza. Il LUCE manda in Africa Sinistri, Martino, Abbati e lo stesso Craveri. In Spagna a filmare la guerra restano fissi Francesco Attenni e Marco Scarpelli. Gli operatori inviano materiale con regolarità a Roma dove Ricotti, che dirige il reparto montaggio, confeziona i documentari che vengono rapidamente messi in distribuzione.
Anche per la Seconda Guerra Mondiale il LUCE si organizza con i propri operatori di guerra. A differenza di quanto avviene in altri Paesi coinvolti nel conflitto, l'Italia spedisce i propri operatori sui campi di battaglia. I ministeri della guerra anglo-americani, invece seguono un'organizzazione diversa dotando ogni reparto di una macchina da presa, apparecchiatura fotografiche e pellicola. in quel caso (e ci piace ricordare l'omaggio che rendono i Taviani in Good Morning Babilonia) gli operatori sono soldati, vestono la divisa e impugnano alternativamente ora il fucile ora la macchina da presa.
Rino Filippini, operatore LUCE, realizza i suoi filmati dal fronte utilizzando tutta una serie di accorgimenti che gli faranno guadagnare onori, medaglie e attenzione generale. "Per ordine del Duce, fondatore dell'Impero, ogni ufficiale era tenuto a darmi tutta l'assistenza necessaria, per cui - ricorda Filippini - avevo grandi possibilità di movimento". La pellicola è razionata. Questo costringe gli operatori di guerra a girare con il minimo del metraggio il massimo di inquadrature e il maggior numero possibile di scene che consentano a Roma di montare il materiale con una fluidità narrativa più efficace possibile.
Fino ad un certo periodo Filippini fa la sua guerra in prima linea, armato di una macchina da presa costruita da Vittorio Benedetti. E in Albania poi, a fianco di un certo maggiore Cavallo, si trova di fronte ai greci, a 50-70 metri dalla linea nemica. "Era Natale e io giro scene con soldati con la barba lunga, le divise strappate, a piedi nudi. Alcuni avevano scucito le maniche della giacca per avvolgercisi i piedi alla meno peggio. Non giravo con il teleobiettivo ero dentro la guerra, girando tutto e credendo di far bene". Ma il Minculpop gli manda a dire che i soldati italiani non devono avere né le scarpe rotte né la barba incolta. La polemica ha uno strascico. Filippini chiede ed ottiene di essere ricevuto dal Ministro Pavolini che chiude l'argomento "battendo un pugno sul tavolo e dicendomi che in questo Paese la verità non si dice".
A partire da quel momento Filippini si disamora. Decide di non rischiare più la vita, conservando il suo ruolo di operatore, ma cominciando a filmare quella che lui stesso definisce la sua guerra finta. Gira cannoni che sparano a cinque chilometri dal fronte, fruga fra i primi piani più intensi dei nostri soldati, esplora i campi di battaglia dopo il cessate il fuoco, riprendendo con grande efficacia morti e feriti, scuote la macchina da presa come se lui stesso stesse attraversando la linea del fuoco. A Roma arriva comunque un materiale straordinario negli effetti e che montato con abilità da Ricotti e dai suoi assistenti, fa rabbrividire e urlare di paura il pubblico. La paura, il raccapriccio e il brivido da dare in pasto al pubblico sono comunque sempre riservati agli avvenimenti del fronte nemico. Un po' come è sempre successo nella storia dei notiziari del regime dove la cronaca nera è abbondantemente contemplata ma riguarda sempre e solo avvenimenti esteri. I fatti della guerra sono trattati, dal punto di vista dei soldati italiani, in maniera del tutto diversa anche perché, come è stato rilevato, Mussolini è del tutto cosciente che l'Italia ha affrontato il conflitto con mezzi bellici del tutto inadeguati ai sofisticati armamenti degli altri Paesi.
Questo è il motivo per cui Pavolini, nell'aneddoto riferito da Filippini, non fa che eseguire precise indicazioni del duce che ha stabilito che i cinegiornali LUCE debbano offrire al pubblico immagini di una guerra facile, non traumatica e facilmente sopportabile per le nostre truppe.