Vittorio
Amedeo II fu un principe molto diverso da suo padre. Terminata
la minore età, appena assunto il governo dello Stato,
si dedicò a rimediare a tutti i mali che si erano
accumulati durante il debole governo della reggenza, e provvide
perfino a ridurre di settantamila lire la pensione di trecentomila
che sua madre si era fatta assegnare. Sedò con rara
energia i tumulti che di tanto in tanto agitavano ancora
il Ducato, specialmente nei dintorni di Mondovì e
di Ceva, e compì altri atti coi quali fece sentire
e temere la sua autorità. Tuttavia, e per quanto
egli aspirasse ardentemente ad un'assoluta indipendenza,
la soggezione del Ducato alla Francia, che durava ininterrotta
dal 1630, divenne più sensibile.
Luigi
XIV cominciò col costringerlo a cacciare i Valdesi
dalle loro valli, come egli stesso, revocato imprudentemente
il famoso editto di Nantes, aveva espulsi dal proprio regno
gli Ugonotti. Poi il re francese domandò tre reggimenti
piemontesi e savoiardi, perchè prestassero servizio
in Francia, appunto mentre il Duca aveva bisogno d'uomini
per respingere le invasioni dei Valdesi, i quali, aiutati
dai protestanti francesi fuorusciti, cercavano di ritornare
con la forza nelle terre native. E infine quando, con la
Lega di Augusta, cattolici e protestanti, e la Spagna, la
Baviera, la Sassonia, la Svezia, l'Olanda ed altre potenze
minori si coalizzarono per resistere alla tendenza egemonica
francese, Luigi XIV, sapendo che i confederati cercavano
di attrarre nella loro orbita anche il Duca di Savoia, volle
garantirsi di lui « come d'un vassallo da cui
in tempo di guerra il sovrano si fa consegnare dei pegni,
per esser certo della sua fedeltà », e
mandò il generale Catinat a chiedergli il passo per
il Milanese. Poi, come se tutto ciò non bastasse,
pretese un altro corpo di truppe assai numeroso, da mandare
a combattere nelle Fiandre.
Vittorio
Amedeo II, per non urtarsi con una potenza temibile come
la Francia, acconsentì a tutto. Ma quando Luigi XIV,
malgrado le preghiere e le rimostranze, del duca, manifestò
la volontà di avere in mano come pegni la rocca di
Vercelli e la cittadella di Torino, Vittorio Amedeo II si
ribellò, e quantunque non disponesse che di poche
migliaia di soldati, accettò l'alleanza con i confederati,
e, nel 1690, dichiarò arditamente guerra alla Francia.
Lodevole audacia, da cui derivò l'emancipazione del
paese dalla soggezione straniera, ma di cui si colsero i
frutti soltanto più tardi ed a prezzo di enormi sacrifici.
Le ostilità
furono aperte il 9 giugno 1690, per iniziativa dei Francesi,
che, dovunque comparvero, si comportarono da barbari. La
prima battaglia importante ebbe luogo il 18 agosto a Saturata,
dove i Piemontesi, benchè rafforzati da un forte
contingente spagnolo, furono sconfitti dai Francesi. Questi,
però, subirono perdite assai gravi. Luigi XIV ordinò
al generale Catinat di non risparmiare incendi e saccheggi
in tutto il Piemonte. Il generale si affrettò ad
obbedire, e la devastazione dei paesi e delle campagne fu
spietata e rapida. Si racconta che un giorno Vittorio Amedeo,
essendosi trovato, in una campagna desolata e fumante, fra
povera gente rimasta senza tetto e priva delle cose più
necessarie, spezzasse e dividesse fra quegli sventurati
il collare dell'Annunziata che gli pendeva dal collo.
La guerra
si protrasse per quattro anni con alterne vicende, ma, in
conclusione, con gravi perdite dei confederati e specialmente
del duca di Savoia, il quale, poco e malvolentieri aiutato
dai suoi alleati, tentò una diversione in Provenza,
che non fu fortunata, e finì col perdere la Savoia,
Nizza, Susa, Avigliana ed altre terre.
Vittorio
Amedeo II, che come uomo politico non poteva dirsi animato
da eccessivi scrupoli, comprese allora di non poter più
sperare che la lotta avesse un esito sfavorevole alla Francia,
e, per non subire le estreme conseguenze di una totale sconfitta
ormai inevitabile, iniziò senz'altro, e da solo,
delle trattative di pace con Luigi XIV.
Queste trattative condussero alla conclusione di accordi
che, dopo una breve ripresa della guerra, vennero inclusi
nel trattato generale di pace stipulato in Ryswick il 10
settembre 1697, ed i cui termini precisi furono i seguenti:
« Cessione al duca di Savoia della città
di Pinerolo e delle sue dipendenze, come già erano
appartenute alla Casa Sabauda prima della cessione fattane
da Vittorio Amedeo la Luigi XIII col trattato di Cherasco,
previa però la demolizione delle fortezze, col patto
di non costruirne altre; restituzione al duca di Savoia
di Monmeliano, Nizza, Villafranca, Susa, ecc. ; matrimonio
di Adelaide, primogenita di Vittorio Amedeo II, col duca
di Borgogna, figlio del Delfino, appena gli sposi ne avessero
avuta l'età. In Pinerolo e in tutte le altre terre
cedute al duca di Savoia, questi non avrebbe dovuto ammettere
i Valdesi, ai quali, con minaccia di gravi pene corporali,
sarebbe anche stato proibito di tener corrispondenza per
cose di religione con i sudditi del re di Francia. Il duca
di Savoia doveva inoltre impegnarsi in modo assoluto a non
dare asilo nei suoi Stati ai fuorusciti francesi ».
Quantunque
l'egoismo degli alleati (i quali, dopo essersi serviti di
lui, non avevano mai fatto nulla a suo vantaggio) potesse,
fino ad un certo punto giustificare la condotta seguita
da Vittorio Amedeo II col voltar loro le spalle improvvisamente,
questa condotta fu giudicata da parecchi storici molto biasimevole.
In tale giudizio, però, questi storici furono di
parere diverso da quello dei contemporanei, i quali invece,
in Piemonte e in tutta Italia, lodarono il duca di Savoia,
« che era riuscito a restituire al proprio Stato
l'indipendenza, e che di fronte al re straniero compariva
in figura di principe di cui si compra e si prega l'aiuto,
non di vassallo a cui lo si impone».
Ottenuta
la pace, Vittorio Amedeo II si dedicò alacremente,
più che non avesse mai fatto, ad una politica di
ricostruzione interna. Provvide anzitutto a rinsanguare
l'erario esausto; ordinò la formazione del catasto,
prima in Piemonte, poi a Nizza; promosse l'industria tessile
e la coltivazione del tabacco; e, per colpire il malandrinaggio
che infieriva dovunque recando gravi danni, bandì
rigorosissimi editti contro chi portasse armi, e li fece
eseguire con implacabile severità. Unì poi
allo Stato alcuni domini imperiali; abolì di fatto
il diritto dei Valdostani di stabilire da sè la quota
delle imposte a cui dovevano assoggettarsi, e, per questi
e per altri provvedimenti, si può dire ch'egli governasse
in modo tale da farsi temere più che amare.
Adelaide,
sua figlia primogenita, partì per la Francia il 7
ottobre 1696. Aveva soltanto undici anni, ed era stabilito
che sarebbe stata educata alla Corte di Francia fino al
momento della sua unione con i duca di Borgogna.
Il 6 maggio 1699, la duchessa Anna diede finalmente al Duca
di Savoia un figlio maschio, ansiosamente atteso, che venne
chiamato Vittorio Amedeo, principe di Piemonte. Nell'anno
seguente nacque un secondo figlio, Carlo Emanuele, e così
Vititorio Amedeo II si vide assicurata la discendenza.
Prima
della pace con la Francia, e dopo, egli ebbe lunghe e tenaci
contestazioni con la Santa Sede, per questioni ecclesiastiche,
ed anche in queste controversie affermò il suo carattere
altero, diffidente, geloso d'ogni diritto e d'ogni prerogativa.
Tutto ciò non lo distoglieva dalle grandi questioni
europee, che, dopo la morte di Carlo II, ultimo re di Spagna
di stirpe austriaca, erano divenute estremamente complesse.
Infatti, prima di morire, Carlo II si era accorto degli
intrighi che i diversi pretendenti alla sua successione
andavano tramando per impadronirsene, e, deciso a sventarli,
aveva fatto testamento, dopo aver consultato il Pontefice,
chiamando al trono di Spagna Filippo, duca d'Angiò,
nipote di sua sorella Maria Teresa e di Luigi XIV. Aveva
prescritto però, in quello stesso testamento, che
i domini della Corona spagnola non dovessero essere smembrati
in nessun caso, e che nessun sovrano potesse cingere contemporaneamente
le due corone di Francia e di Spagna.
Questa
successione, da principio non fu combattuta da nessuno,
nè ostacolata in alcun modo; ma dopo breve tempo
fu causa del formarsi della quarta coalizione europea contro
Luigi XIV.
Di fronte alla nuova situazione, Vittorio Amedeo II, che
pure aveva motivo di temere l'ingrandirsi della Francia
vicina, mentre quello dell'Austria lontana poteva essergli
indifferente, si destreggiò per qualche tempo in
una neutralità non esente da rischi. Ma poi fu costretto,
dal volgere degli eventi, a concedere il passaggio per i
suoi Stati alle truppe francesi, ed infine a dover prendere,
benchè a malincuore, la decisione d'allearsi con
la Francia.
Ma la
tracotanza dei generali francesi non tardò a diventargli
insopportabile, e, -dopo la campagna del 1702, egli cominciò
a propendere per i nemici della Francia, i quali, nonostante
la fama che si era acquistata per il suo primo voltafaccia,
sarebbero stati disposti ad accoglierlo fra loro, se egli
non avesse manifestato pretese che parvero un po' eccessive.
Ad ogni modo, delle trattative iniziate ne ebbe sentore
Luigi XIV. Questi non esitò ad ordinare che venisse
accerchiato e disarmato un corpo d'esercito piemontese che
si trovava nel Mantovano, facendo sapere a Vittorio Amedeo
II che l'arresto di quelle sue truppe era stato comandato
in vista dell'occupazione francese di alcune piazze di sicurezza
in Piemonte, destinate ad obbligarlo almeno, alla neutralità.
Sarebbe
bastato anche un atto assai meno grave, perchè prorompessero
l'ira e lo sdegno del Duca, che con la solita audacia non
esitò a dichiarar guerra alla Francia e alla Spagna,
facendone arrestare gli ambasciatori. Nel manifesto di guerra,
disse con nobile fierezza: « Finisco di rompere
un'alleanza già violata a mio danno. Preferisco il
morire con le armi in pugno, all'onta di lasciarmi opprimere
». Ma, cominciate le ostilità, gli aiuti
imperiali sui quali Vittorio Amedeo II aveva fatto assegnamento
furono lenti a giungere e la guerra si svolse con vicende
poco liete per i Piemontesi (1703-1704).
I Francesi presero Susa, Vercelli, Ivrea, tutta la valle
d'Aosta. Nel gennaio del 1705, si impadronirono anche della
fortezza di Verrua, strenuamente difesa da Vittorio Amedeo,
che la lasciò soltanto quando fu ridotta a non essere
più che un mucchio di rovine.
Da allora, a poco a poco, i generali francesi Vendóme
e Lafeuillade gl' invasero tutto lo Stato.
Mentre
il Duca, da Verrua, si ritirava a Chivasso, indi si riduceva
a Torino, giungevano dal Tirolo le tanto attese milizie
imperiali guidate dal principe EUGENIO
di SAVOIA (biografie e gesta
). Questi rimase vinto a Cassano il 15 agosto
1705, in una battaglia che però fu disastrosa anche
per i Francesi e che comunque servì a ritardare l'assedio
di Torino, il quale fu iniziato nell'anno successivo. La
capitale del Ducato oppose al nemico un'eroica resistenza,
ma non tardò ad essere in grave pericolo. Fu durante
quell'assedio memorabile, che, per salvare Torino da una
incursione sotterranea di francesi, Pietro Micca, nella
notte del 29 agosto 1706 si sacrificò dando fuoco
alle polveri della fortezza e seppellendo così un
gran numero di nemici.
Il 30
e il 31 agosto, i Francesi tentarono nuovi assalti, ma altre
mine scoppiarono da ogni parte, facendo strage di assaliti
e di assalitori, mentre dal colle di Superga Vittorio Amedeo
II faceva segnali agli assediati per avvertirli che gli
aiuti imperiali erano giunti.
Il 7
settembre, finalmente, seguì la famosa battaglia
di Torino, nella quale Vittorio Amedeo ed il principe Eugenio
di Savoia, con truppe imperiali, con schiere prussiane comandante
dal principe Leopoldo di Anhalt-Dessau, e con dodici battaglioni
usciti dalla città, sconfissero i Francesi irreparabilmente.
A ricordo della grande vittoria, Vittorio Amedeo II fece
poi erigere sul colle di Superga la celebre
basilica, secondo un voto pronunciato prima della battaglia.
Ai vincitori
riuscì facile, dopo quella vittoria, scacciare il
nemico da tutte le terre che aveva occupate, insignorirsi
del Monferrato, del Milanese, del Castello di Milano e della
città di Cremona. Il principe Eugenio assediò
e prese Tortona, che resisteva. Nello stesso tempo fu invasa
parte della Provenza e vennero occupate le valli di Oulx.
Da allora
ebbe fine la supremazia borbonica in Italia, ma cominciò
quella austriaca, che doveva durare per ben due secoli.
Nel 1713,
dopo la pace di Utrecht, mercè i buoni uffici della
regina d'Inghilterra, che gli era favorevole, Vittorio Amedeo
II oltre la restituzione del Ducato di Savoia conseguì
vantaggi anche maggiori. La Francia gli restituì
anche Nizza, e gli cedette le valli alpine sul versante
italiano del Monginevro, accontentandosi, in cambio, della
valle di Barcellonetta sul versante francese. Con questa
nascita del "Principato del Piemonte" furono unite
le valli di Pragelato, Fenestrelle, Exilles, Oulx, Cesana,
Bardonecchia, e le vette alpine segnarono ormai il confine
tra i due Stati, e alla Francia non rimase più neppure
un palmo di terra italiana, ne un solo passo da cui potesse
facilmente invadere la parte settentrionale della penisola.
La Francia
garantì inoltre al duca di Savoia il possesso del
Monferrato, di Alessandria, di Valenza, della Lomellina,
della Valsesia, come pure la superiorità sui feudi
delle Langhe e del Vigevanasco. Alla dinastia Sabauda venne
anche riconosciuto il diritto di successione al trono di
Spagna, quando fosse estinto il « ramo Filippino ».
Il principe di Monaco riconobbe la sovranità dei
Savoia su Mentone e su parte di Roccabruna, rendendo omaggio
a Vittorio Amedeo come vassallo, e ricevendo da lui l'investitura.
Dal re di Spagna Filippo V d'Angiò, il duca di Savoia
ebbe poi la Sicilia, col titolo di re, per se e per i suoi
discendenti, ma con la condizione espressa che non potessero
permutare nè vendere l'isola, e che qualora si fossero
estinte le linee maschili della Casa di Savoia, l'isola
stessa dovesse ritornare alla Spagna.
Il 22
settembre 1713, festa di San Maurizio, antico protettore
della Casa di Savoia, Vittorio Amedeo II venne proclamato
in Torino Re di Sicilia, e dopo aver conferita la reggenza
del Principato al principe di Piemonte, allora quattordicenne,
e alla duchessa Anna, partì da Nizza su di una nave
inglese, accompagnato da cinquemila soldati. Arrivò
a Palermo il 10 ottobre e fu accolto dalla popolazione con
grandi acclamazioni. Ma poi non tardò ad accorgersi
che, malgrado le apparenze, il suo regno non aveva nè
mai avrebbe potuto avere salde basi nell'isola, e perciò,
in seguito alla morte di Anna, regina d'Inghilterra e di
Maria Luisa di Savoia, regina di Spagna, e ad altri avvenimenti
che oscuravano l'orizzonte politico europeo, dopo aver trascorsi
a Palermo undici mesi, nominò vicerè il conte
Annibale Maffei, gran maestro dell'artiglieria piemontese
e s'imbarcò (il 5 settembre 1714) per ritornare in
Piemonte. Giunse il 1° ottobre a Torino, salutato dal
popolo con grandi manifestazioni di gioia.
Ma cinque
mesi dopo, doveva colpirlo
una grave sciagura: il 22 marzo 1715, gli morì il
primogenito Vittorio Amedeo, principe di Piemonte, sul quale
si concentravano l'affetto e le speranze del suo cuore paterno.
- Secondo i contemporanei, il principe defunto era stato
un giovane bello e gentile, dotato di un'intelligenza non
comune e di un'ottima coltura, che il padre aveva voluto
formargli interessandosene personalmente, come di tutto
ciò che lo riguardasse. Il secondogenito, Carlo Emanuele,
invece, per il quale Vittorio Amedeo II era ben lungi dal
nutrire gli stessi sentimenti affettuosi, « era
brutto, gozzuto, di gracilissima complessione, e di una
timidezza che a torto veniva scambiata, dal padre e da molti
altri, per stupidità ».
Della
crudele perdita del figlio prediletto, il duca si disperò,
tanto che per qualche giorno si temette ch'egli avesse a
perdere l'uso della ragione.
Dopo
qualche tempo infine, egli cominciò, rassegnato,
a dedicarsi all'educazione del secondogenito, che soleva
chiamare Carlino. «Gli fece studiare la matematica
pura ed applicata, lo mandò, scrive il Cibrario,
ad esaminare minutamente, accompagnato da ufficiali
del Genio, le fortificazioni di tutte le sue piazze, ed
a studiarle tanto dal lato della difesa quanto da quello
della costruzione e del prezzo del materiale e della mano
d'opera, obbligandolo a rassegnargli una relazione scritta
di ogni cosa appresa od osservata ».
Più
tardi lo iniziò agli affari dello Stato facendolo
assistere alle riunioni dei ministri, insegnandogli come
dovesse comportarsi durante le udienze, e specialmente in
quelle accordate agli stranieri. Procurò insomma,
con ogni sforzo, di renderlo degno del trono, ma agì
sempre, nel fare ciò, con modi aspri e con una durezza
senza pari, poichè non amava quel figlio, vedendo
il quale, sentiva più acuto il rimpianto dell'altro.
Il famoso
cardinale Alberoni, divenuto primo ministro di Filippo V,
e protetto dalla seconda moglie di lui, Elisabetta Farnese,
decise di riacquistare alla Spagna tutto ciò ch'essa
aveva perduto in Italia, e nel 1716 fece invadere improvvisamente
la Sicilia, che apparteneva al duca di Savoia, e la Sardegna,
tenuta dall'Imperatore. Ma l'occupazione spagnola delle
due isole durò poco, poichè il 2 agosto 1718,
in conseguenza di accordi diplomatici a cui parteciparono
anche l'Inghilterra e la Francia, la Sicilia divenne possesso
imperiale
e
la Sardegna passò a Vittorio Amedeo II, che ne diventò
re, cessando di essere re di Sicilia.
Si noti
che, una ventina d'anni prima, quando si era parlato di
dargli quell'isola, il duca di Savoia, che invece sperava
di riuscire ad ottenere il Milanese, aveva detto: «
la Sardegna non mi conferirebbe che un titolo vano, senz'accrescimento
alcuno di potenza ».
«
Vittorio Amedeo, riassume uno storico, - entrò
in possesso dell'isola di Sardegna il dì 8 agosto
1720 per mezzo del generale Pallavicini di San Remigio,
da lui nominato suo vicerè. Istituì in Torino
un consiglio supremo per gli affari della Sardegna, e la
governò con benefico e tollerante sistema. Spiaceva
da principio ai Sardi la parsimonia del novello re paragonata
alle antiche grandezze degli Spagnuoli, e credeva che non
sarebbe durato sulla loro isola il dominio di Casa Savoia.
Ma quando conobbero che le potenze avevano confermato quella
mutazione, e trovarono saggio e moderato il nuovo governo,
i malumori e le incertezze si spensero».
Nel 1722,
ancora inconsolabile della morte del figlio maggiore, Vittorio
Amedeo II fece sposare il figlio Carlo Emanuele con una
Cristina Luigia, figlia di Teodoro, conte palatino di Sultzbach;
ma questa principessa morì un anno dopo, dando alla
luce un maschio: Vittorio Amedeo Teodoro, duca d'Aosta,
che visse soltanto fino all'11 agosto 1725. In questo stesso
anno, il re di Sardegna fece sposare nuovamente Carlo Emanuele,
con una figlia del langravio di Assia-Rheinfels-Rottenburg,
la quale, il 26 giugno 1726, diede alla luce un principe,
che fu poi VITTORIO AMEDEO III.
Negli
ultimi anni di regno, Vittorio Amedeo Il non partecipò
più direttamente agli avvenimenti della politica
internazionale; ma dedicò tutta la sua attività
alla coordinazione delle leggi interne, ed attese con zelo
particolare alla soluzione di certe vecchie contese ecclesiastiche.
Nel 1726, essendo rimasti vacanti, per le, lunghe contese
con la Santa Sede, quasi tutti i vescovadi degli Stati Regi,
il re, informato che a Roma si avevano migliori disposizioni
verso di lui, mandò dal Papa, per riprendere le relazioni
interrotte, il marchese d'Ormea, Generale delle finanze.
Il d'Ormea agì tanto abilmente da conciliarsi in
breve tempo le buone grazie del pontefice, e dopo lunghe
e non facili trattative, riuscì a concludere un concordato
tra la Santa Sede e la Monarchia di Savoia, molto soddisfacente
per ambe le parti. Vittorio Amedeo II potè allora
procedere alla nomina dei vescovi, avendo cura di sceglierli
specialmente nell'Ordine dei Predicatori, al quale il Papa
apparteneva.
La missione
del marchese d'Ormea a Roma costituì un vero grande
successo per la diplomazia piemontese, che d'altronde era
assai rinomata : "Ce qui est certain, au moins",
scriveva Lord Chesterfield, grande politico inglese, "c'est
que dans toutes les Cours et à tous les congrès
où se trouvent des ministres étrangers, ceux
du Roi de Sardaigne sont généralement les
plus habiles, les plus polis et les plus déliés
».
Nel 1728,
ormai vecchio e stanco, Vittorio Amedeo II cominciò
a soffrire di una grave malattia. Nello stesso anno gli
morì la moglie, regina Anna, della quale un contemporaneo
scrisse che « fece veramente una morte da santa,
come era vissuta ». Quel lutto rese ancor più
severi i costumi personali del Re e quelli di tutta la Corte
di Torino, dalla quale già da tempo erano stati banditi
il lusso e le feste. Vittorio Amedeo II, del resto, manifestò
sempre un grande disprezzo per qualsiasi pompa. Indossava
incessantemente un abito color marrone senz'alcuna guarnizione
d'oro o d'argento. Portava scarpe grossolane, con grossa
suola, e una spada dall'elsa d'acciaio arrugginita. Aveva
grande cura soltanto della parrucca, che portava sempre
pettinata diligentemente.
Proponendosi
di abdicare, volle trovarsi una compagna per la vagheggiata
solitudine, e scelse per moglie Anna Teresa Canalis, vedova
del conte Novarina di San Sebastiano e dama d'atour della
principessa di Piemonte. A quarantacinque anni, questa gentildonna
conservava molta parte di una bellezza che era stata giustamente
famosa, ed aveva un carattere gaio che rendeva piacevolissima
la sua compagnia.
A lasciare
la corona, il primo re di Sardegna fu indotto unicamente
dal declinare delle forze e della salute. Egli si sentiva
ormai prossimo alla fine, come ebbe a dire all' ambasciatore
francese Blondel. La sua abdicazione destò curiosità
ed interesse in tutta Europa; ma risultò che essa
non ebbe alcun motivo politico. Egli mantenne del resto
il più assoluto segreto sulla risoluzione che aveva
presa di rinunciare alla corona e di riammogliarsi. Anche
la contessa di San Sebastiano, da lui fatta marchesa di
Spigno e sposata segretissimamente il 12 agosto in una sala
del suo palazzo, ignorava i suoi propositi di abdicazione,
ed anzi si illudeva di diventare sovrana di fatto, come
in Francia la marchesa di Maintenon, sposata da Luigi XIV.
Il segreto
tanto gelosamente custodito fece sì che la notizia
dell'abdicazione giungesse dovunque assolutamente inaspettata.
La cerimonia per l'atto di rinuncia al trono ebbe luogo
la mattina del 3 settembre nel castello di Rivoli. In quello
stesso giorno, Vittorio Amedeo II rese noto il suo matrimonio
con la contessa di San Sebastiano, marchesa di Spigno, e
il giorno successivo partì per Chambéry.
Prima
di abdicare, egli aveva collocato nei posti più importanti
le sue creature più capaci e più fedeli: come
consigliere del suo successore aveva designato il vecchio
marchese di San Tomaso, e come primo ministro effettivo
il marchese d'Ormea, che, sotto l'apparenza della franchezza
celava l'animo d'un uomo scaltro, dissimulatore, altero,
prudente o intraprendente secondo le circostanze, capace
di concepire e di attuare i disegni più vasti e più
audaci.
Vittorio
Amedeo II ebbe la stoffa di un sovrano assoluto, e alla
concezione del governo dispotico cercò di spingere
il figlio anche dopo la propria rinuncia al trono. «
Moncher fils, gli scrisse infatti in una lettera recante
la data del 7 gennaio 1731, - il faut vous accoutumer
à avoir de la résolution et à prendre
de vous-méme vos déterminations, comme un
roi doit faire après y avoir bien refléchi.
Souvenez-vous, mon, cher enfant, qu'il faut unir la prudence
avec la fermeté, qui est la base du bon gouvernezioment
».
Ma a
Chambéry egli si ridusse a condurre vita veramente
privata, con un assegno annuo di centocinquantamila lire.
Da principio, i rapporti fra i due re padre e figlio, furono
ottimi. Carlo Emanuele non trascurava d'informare suo padre
di tutte le questioni importanti, e soleva regolarsi secondo
i consigli di lui negli affari più gravi. Ma tale
condizione di dipendenza del sovrano regnante non piacque
al vanitoso marchese d'Ormea, principale dirigente della
politica dello Stato, e finì col dispiacere anche
a Carlo Emanuele, quando egli s'avvide che molti suoi sudditi
consideravano come fittizio il governo di Torino e come
vero ed effettivo soltanto quello che si diceva risiedesse
a Chambéry, e quando capì che molti, specialmente
stranieri, vedevano in lui un ragazzo interamente soggetto
al padre, al quale solo si attribuivano capacità
ed autorità di regnante.
Perciò
i rapporti fra i due re non tardarono a
cessare d'esser cordiali ed infine s'inasprirono per una
questione di politica interna nella quale i modi di vedere
del padre e del figlio risultarono opposti.
Il 5 febbraio 1731, Vittorio Amedeo II fu colpito da un
attacco apoplettico. Carlo Emanuele, avutane notizia, volle
subito correre a Chambéry; ma una lettera dettata
da suo padre stesso gl'impose di non muoversi da Torino.
Allora il marchese d'Ormea, con la scusa di non affaticare
il vecchio sovrano, cessò d'informarlo periodicamente
dell'andamento degli affari dello Stato. E Vittorio Amedeo,
pel fatto di vedersi trascurato, o perchè l'attacco
di apoplessia gli avesse sconvolto il cervello, o perchè
i falsi amici e i maligni gli riferissero cose non vere,
o per le suggestioni della moglie, che avrebbe voluto regnare,
s'inasprì a tal segno che, quando Carlo Emanuele,
nell'estate, andò a trovarlo in Savoia, l'accolse
con rimbrotti e minacce. Carlo si decise allora a ritornare
immediatamente a Torino; ma il padre lo seguì, lo
raggiunse a Rivoli, lo investì di nuovo con terribili
rimproveri, minacciandolo anche di cacciarlo dal trono.
L'ira
di Vittorio Amedeo non risparmiò, naturalmente, il
marchese d'Ormea e gli altri ministri del figlio. Il vecchio
re sosteneva ora che la sua rinuncia alla corona era stata
fatta in modo tale che i sudditi non erano rimasti sciolti
dal giuramento di fedeltà verso di lui, ed insisteva
per avere l'originale dell'atto di abdicazione. Poi si recò
a Moncalieri, dove diede segni non dubbi del proprio furore
morboso, cominciando a volere agire ancora da re in modo
così perentorio da far temere gravissimi conflitti
interni. Il marchese d'Ormea, sdegnato per la condotta inverosimile
del suo antico padrone, incitava Carlo Emanuele a resistere
al padre. Il giovane re era ugualmente sdegnato. A tutti
e due pareva che Vittorio Amedeo volesse veramente cacciare
il figlio dal trono per risalirvi, con la marchesa di Spigno,
tanto più che erano venuti a sapere che Vittorio
Amedeo aveva dettato all'abate Boggio, suo confessore, una
formula di revoca della propria abdicazione, ed aveva anche
manifestato il proposito di recarsi a Milano per far giudice
dei suoi diritti l'Imperatore.
Corsero
voci di aiuti francesi, di congiure contro la vita di Carlo
Emanuele III, e di avvelenamenti. Sembra però che
nulla di tutto questo fosse vero, o almeno che vi fossero
molte esagerazioni. Ad ogni modo, venne tenuto a Torino,
sotto la presidenza del re, un Consiglio della Corona durante
il quale, in seguito ad una energica relazione del marchese
d'Ormea, fu deliberato all'unanimità l'arresto di
Vittorio Amedeo II.
Carlo
Emanuele III, per quanto profondamente addolorato e con
le lacrime agli occhi, firmò l'ordine di cattura
del padre. L' arresto venne eseguito nella notte dal 28
al 29 settembre del 1731, dal reggimento « Principe
di Piemonte ». Il castello di Moncalieri fu invaso;
le porte dell'appartamento di Vittorio Amedeo II vennero
abbattute. Il vecchio re e la marchesa di Spigno, dopo viva
resistenza, vennero arrestati.
«
Questa, dice il Cibrario, forse fu una politica
necessità. Ma ciò che non può scusarsi
è l'aver poi separato dalla moglie un vecchio principe
oppresso dai malori e con un piede nel sepolcro, guardandolo
a vista nel castello di Rivoli, senza concedergli altro
colloquio fuor quello del suo confessore cappuccino. La
marchesa di Spigno, dama di nobil sangue, e perciò
appunto divenuta moglie del re, l'avevano chiusa nella fortezza
di Ceva, prigione delle donne di sozza vita; inoltre i ministri
non diedero mai il permesso a Re Carlo di vedere suo padre,
sebbene questi più volte e con grande istanza domandasse
di vederlo, assicurando che non gli avrebbe fatto il minimo
rimprovero, poiché bramava solo ardentemente abbracciarlo
e benedirlo prima di morire ».
Il 12
settembre, in seguito a sua istanza il vecchio sovrano potè
riavere la compagnia della marchesa di Spigno. Ma prima
di poter ritornare accanto al marito, ella dovette giurare
a Carlo Emanuele che non avrebbe mai confidato a Vittorio
Amedeo in quale luogo era stata rinchiusa, e che, interrogata,
gli avrebbe detto di esser stata in un monastero di Cuneo,
come al vecchio re si era fatto credere. Quattro mesi dopo,
in una notte piovosa, furono trasferiti entrambi dal castello
di Rivoli a quello di Moncalieri. Vittorio Amedeo dovette
essere trasportato con una lettiga. Alla fine di agosto,
egli fu preso da febbri che lo stremarono talmente da affrettare
la sua fine. Infatti, morì il 31 ottobre 1732.
La sua
salma fu tumulata a Superga; e, nella cattedrale di Torino,
furono celebrati solenni funerali. La mattina del 1°novembre,
la marchesa di Spigno venne condotta nel monastero di San
Giuseppe in Carignano, donde chiese ed ottenne di passare
in quello della Visitazione, in Pinerolo (dove poi morì
ad ottantanove anni il 13 aprile 1769, trentàsette
anni dopo Vittorio Amedeo II).
Così
finì questo grande principe, che ritemprò
il carattere del suo popolo, emancipò la sua monarchia
da ogni influenza straniera e la rese preponderante in Italia.
Egli fu insieme un guerriero, un politico ed un amministratore
insigne; una mente capace di concepire i progetti più
arditi e più vasti, e di discutere i più minuti
particolari di qualsiasi affare; un monarchico sagace e
prudente, ma non alieno, quando fosse in gioco qualche grande
interesse, dall'abbracciare i partiti più rischiosi.
Assoluto e geloso del potere, non convocava i ministri a
consiglio, ma li interrogava separatamente, facendo in modo
che ciascuno di essi sospettasse degli altri. Vedeva tutto
da sè, e di tutto giudicava e a tutto provvedeva
personalmente.
Malgrado
il suo dispotismo, che gli fece commettere qualche grave
errore, e la violenza del suo carattere, che lo spinse a
turbare i primi anni del regno di Carlo Emanuele III, egli
fu uno dei più grandi principi della Casa di Savoia.
prima
moglie ANNA MARIA D'ORLEANS
( n.1669 - m. 1728 )
Fra le molte
aspirazioni giovanili di Vittorio Amedeo II, la più
sentita e certo la più nobile fu quella di liberare
la sua Casa dalla soggezione alla Francia e di sposare una
principessa italiana, per affermarsi sempre più indipendente
e italiano.
Animato da tali propositi, il principe Sabaudo rifiutò
il matrimonio con la figlia del re del Portogallo, caldeggiato
da sua madre, duchessa reggente, e volle che fossero iniziate
trattative con la Corte di Toscana, perchè gli fosse
data in moglie Anna Luisa de' Medici. Ma Luigi XIV anche
in quella circostanza gli fece sentire il peso della propria
autorità, e lo costrinse a sposare invece ANNA MARIA
d'ORLEANS. Non può quindi sembrare strano che questo
matrimonio, accettato per forza, sia risultato infelicissimo.
Anna Maria, figlia di Filippo duca d'Orléans, unico
fratello del Re Sole, non conobbe sua madre, la bellissima
e spensierata Enrichetta d'Inghilterra, che si spense nel
fior degli anni, e fu allevata dalla matrigna, Elisabetta
di Baviera, la quale l'amò, dicesi, tenerissimamente.
Andò
sposa prima d'aver compiuti i quindici anni, mentre lo sposo
ne aveva appena diciotto. Il 7 maggio 1684 Vittorio Amedeo
di Savoia andò ad incontrarla alla frontiera, e tredici
giorni dopo la coppia ducale entrò in Torino, di
notte, accolta con festoso entusiasmo dalla popolazione,
fra un tripudio di suoni di campane e di salve d'artiglieria.
Finite le feste, gli sposi andarono a passar l'estate alla
Venaria, e Vittorio Amedeo non indugiò a riannodare
la relazione amorosa che già aveva avuto con la marchesa
Turrinetti di Priero, e subito cominciò a trascurare
la moglie, preferendole la caccia e gli amici. Ma pur non
amandola, egli ebbe motivo di stimarla molto, ed a lei,
infatti, anzichè alla madre, rimise l'esercizio dell'autorità
sovrana, quando per la prima volta si allontanò da
Torino per muovere contro i Valdesi.
Quando,
dopo la primogenita Adelaide, nata il 6 dicembre 1685, Anna
Maria diede alla luce un'altra bambina, a cui fu dato il
nome della madre e che poi morì in tenerissima età,
Vittorio Amedeo, probabilmente per il dispetto di non avere
un maschio, si abbandonò più che mai ai facili
amori, trascurando sempre più la duchessa. Tuttavia,
quando egli s'ammalò di vaiolo, al campo, durante
la guerra contro l'Impero, Anna Maria, noncurante del pericolo
e del contagio, non esitò a correre presso di lui
per curarlo, e gli diede prove ammirabili di profonda devozione
e di grandissimo affetto.
Dopo quella malattia, Vittorio Amedeo sembrò desistere
dalla sua ostilità verso la moglie, e visse con lei
in una residenza campestre ch'ella preferiva e che più
tardi fu chiamata Vigna della Regina, appunto in onore di
lei, divenuta regina prima di Sicilia e poi di Sardegna.
Dopo tanti tormenti, Anna Maria potè finalmente godere
un po' di pace ed ebbe la gioia di veder concluso il matrimonio
di sua figlia MARIA ADELAIDE col duca di Borgogna (futura
madre di Luigi XV re di Francia - vedi biografia sotto).
Un anno dopo la partenza per la Francia di Maria Adelaide,
avvenuta nel 1699, ella mise al mondo felicemente un maschio,
VITTORIO AMEDEO; al quale nell'anno seguente diede un fratello,
destinato a regnare col nome di CARLO EMANUELE III. Ormai,
la continuazione della dinastia era assicurata.
La tranquillità della regina fu poi violentemente
turbata dalla morte quasi improvvisa e alquanto misteriosa
della giovane e brillante duchessa di Borgogna, sua figlia,
avvenuta otto giorni dopo quella del marito. Seguirono,
a breve distanza di tempo, le morti dell'altra figlia, divenuta
regina di Spagna, e del principe di Piemonte, erede appena
sedicenne del recentissimo trono di Sardegna. Così
alla regina rimase un unico figlio, Carlo Emanuele, il povero
Carlino, per il quale il padre non nutriva alcun sentimento
affettuoso!
Ella visse ancora per parecchi anni; vide sposo due volte
Carlo Emanuele, alle cui mogli fu madre premurosa, continuando
a dar prova di modeste virtù e a non risparmiarsi
i sacrifici, l'ultimo dei quali consistè nel trascurare
il male che doveva poi condurla alla tomba, per assistere
la nuora inferma. E fu tanto forte, durante quella assistenza,
che tutti la credettero colta da morte improvvisa, quando
il suo male, aggravatosi, le chiuse gli occhi per sempre,
il 26 agosto 1728.
la figlia: MARIA ADELAIDE
(Duchessa di Borgogna - n. 1685 - m. 1712)
(nel 1711 divenne delfina di Francia)
Come
già vedemmo, Carlo Emanuele III ebbe due sorelle:
Maria Adelaide e Maria Luisa Gabriella. La prima sposò
Luigi di Borbone, duca di Borgogna, figlio del Delfino di
Francia; la seconda sposò Filippo V (d'Angiò),
re di Spagna.
Il Voltaire, nel suo Siecle de Louis XIV, così
si esprime a proposito di Adelaide:
« La Duchessa di Borgogna fu piena di grazia e
grandi virtù. Gli elogi che venivano tributati a
sua sorella, in Spagna, le ispirarono una emulazione tale
da raddoppiare in lei la volontà e l'arte di piacere.
Non era una bellezza perfetta, ma aveva occhi splendidi,
un bel personale, un nobile portamento. Queste doti erano
aumentate dal suo spirito non comune e più ancora
dal grande desiderio che ella aveva di meritarsi l'ammirazione
di tutti. Come Enrichetta d'Inghilterra, madre di sua madre,
fu l'idolo e il modello di tutta la Corte, ma in un grado
più elevato. Era destinata al trono; la Francia aspettava
dal Duca di Borgogna un governo simile a quelli immaginati
dai saggi dell'antichità, ma nel quale l'austerità
sarebbe stata temperata dalle grazie di questa principessa,
le quali potevano esser comprese assai più della
filosofia dì suo marito ».
Il fascino esercitato da Adelaide non derivava certo dal
suo fisico. Più franco del Voltaire, il Saint-Simon
la descrive regolarmente "brutta, con le gote cascanti,
la fronte troppo sporgente, un naso insignificante, labbra
grosse ed ironiche, capelli e sopracciglia foltissimi e
d'un castano scuro, occhi stupendi e parlanti, denti pochi
e brutti, e dei quali ella stessa si burlava; bel colorito,
pelle delicatissima, collo lungo con una leggera tendenza
al gozzo, che però non le stava male; galante il
portamento della testa, grazioso e maestoso ad un tempo
lo sguardo, sorriso molto espressivo, vita lunga, rotonda,
sottile, modellata a perfezione, andatura da dea nelle nubi.
Per quel che aveva di bello, finiva col piacere. Le grazie
nascevano in lei ad ogni passo, dai suoi modi, dai suoi
discorsi più comuni. Una espressione semplice e naturale
sempre, ingenua, spesso, ma spiritosa, incantava, in lei,
unitamente alla disinvoltura ch'ella non perdeva mai e che
comunicava a chiunque l'avvicinasse ».
Adelaide andò in Francia ad undici anni, nel 1696,
per essere educata in seno alla Corte in cui viveva il duca
di Borgogna, al quale fu unita in matrimonio nell'anno successivo.
La
cerimonia nuziale ebbe luogo senza straordinaria pompa,
ma le feste che la seguirono furono splendide. Le nozze
però non furono consumate che due anni dopo, essendo
la sposa, a giudizio del Re, ancora troppo giovane per avere
prole. L'unione di Adelaide col marito fu esemplare.
«Senz'aver l'aria di desiderarlo, la Duchessa
(così un altro storico) voleva piacere assolutamente
a tutti. Buona e leggera ad un tempo, ella avrebbe voluto
che tutti vivessero in pace, e s'indispettiva perchè
suo padre, non sottostando sempre alle esigenze della Francia,
comprometteva quella tranquillità d'esistenza che
per lei era un ideale. La sua giovanile ed attiva gaiezza
animava tutto ciò ch'ella faceva, e la sua leggerezza
di ninfa la facevano comparire dovunque come il turbine,
che invade contemporaneamente più luoghi e vi porta
movimento. Assisteva a tutti gli spettacoli, era anima di
tutte le feste, regina di tutti i balli, nei quali si faceva
ammirare per l'elasticità e l'eleganza delle movenze.
Sapeva farsi amare da Luigi XIV e dalla signora di Maintenon,
senza adularli, ed era riuscita ad avere con loro una familiarità
a cui non era mai giunto nessuno dei nipoti del sovrano
».
Nel 1711, per la morte del suocero, figlio primogenito del
re, Adelaide divenne Delfina di Francia, e, simpatica a
tutti, fu più che mai vezzeggiata e con sincerità
festeggiata.
Si narra che parlando ella un giorno col marito (che amava
e da cui era amata immensamente) di una certa predizione
che le era stata fatta in Piemonte, secondo la quale sarebbe
morta a ventisette anni, come infatti avvenne, gli chiedesse
chi avrebbe scelto per moglie dopo di lei. Il marito, allora,
le avrebbe risposto che gli sarebbe mancato il tempo di
pensare a riammogliarsi, "perchè certo l'avrebbe
seguita nella tomba dopo otto giorni al più..."
Quel colloquio, se avvenne veramente fu profetico. Adelaide
infatti morì quasi improvvisamente nell'aprile del
1712, otto giorni prima del marito. Il loro primogenito
morì a sua volta dopo alcuni giorni, e il secondogenito
gli tenne dietro a pochi mesi di distanza; a quanto pare,
furono uccisi da una malattia misteriosa che nessuno seppe
spiegare, ma di cui molti attribuirono l'origine ad un veleno
propinato forse dal duca d'Orléans, futuro Reggente.
«Si narra pure che mentre Adelaide era in fin di vita,
una dama della Corte, avvicinatasi al suo capezzale, le
disse presso a poco: « Altezza, la vostra vita
è troppo preziosa per lo Stato, e il Cielo non vorrà
privarcene tanto presto». Allora, la morente,
come parlando a sè stessa, avrebbe detto : «Altezza
oggi, domani nulla, posdomani dimenticata!... »
Due giorni dopo, finiva chiusa in una delle tombe reali
di Saint-Denis.
la
figlia: MARIA LUISA GABRIELLA
( Regina di Spagna )
( n. 1688 - m. 1714 )
Quando,
il 1° novembre 1700, Carlo II, ultimo rappresentante
della Casa d'Austria sul trono di Spagna, venne a morire,
contrariamente all'aspettative generali egli designò
come suo successore, anziché un arciduca della sua
famiglia, Filippo d'Angiò, fratello del duca di Borgogna,
nipote di sua sorella, Maria Teresa d'Austria, moglie di
Luigi XIV re di Francia.
Tale designazione inaspettata fu causa della lunga e sanguinosa
guerra detta della Successione di Spagna, alla quale, divisa
in due parti, partecipò, si può dire, tutta
l'Europa.
Luigi XIV, non preoccupandosi affatto delle prevedibili
conseguenze dell'atto, accettò senz'indugio la corona
di Spagna per il nipote, allora appena diciottenne, e dapprima
pensò unicamente a dargli una moglie degna. La sua
scelta cadde subito sulla secondogenita del duca di Savoia
Vittorio Amedeo II, che era la principessa MARIA LUISA GABRIELLA,
e ciò avvenne certamente, più che per qualsiasi
altra considerazione, per il desiderio che il re di Francia
doveva avere di rendersi amico e partigiano il padre della
principessa in questione.
Vittorio Amedeo II, fedele alla politica tradizionale della
sua Casa, che gli consigliava di temporeggiare, per poi
schierarsi, al momento opportuno, dalla parte che sarebbe
stata favorita dalla fortuna nella guerra che insanguinava
l'Europa, esitò alquanto ad accettare l'offerta di
matrimonio fatta dal Re Sole; ma la sua perplessità
fu di breve durata. E l'11 settembre 1701, il vecchio e
sordomuto principe Emanuele Filiberto di Savoia-Carignano
sposò in Torino, in nome e per conto di Filippo V
re di Spagna, la cugina Maria Luisa Gabriella, che aveva
soltanto tredici anni.
La
cerimonia nuziale si svolse senza letizia. Il padre della
Duchessa Anna, nonno della sposa, era morto da poco, e perciò
la Corte era in lutto. Inoltre, Vittorio Amedeo era partito
il giorno prima per il campo.
Dopo essere stata per alcuni giorni nel castello di Racconigi,
Maria Luisa venne accompagnata dalla madre, dalla nonna
e dal vecchio cugino fino alle falde del colle di Tenda,
indi lasciò piangendo il paese nativo, e poi, accompagnata
soltanto dal seguito, si recò a Nizza per imbarcarvisi
sulla nave spagnola su cui l'aspettava un numerosa gruppo
di cortigiani venuti da Madrid con la principessa Orsini,
nominata Camarera mayor della regina adolescente, e, secondo
alcuni, già amante del nuovo re di Spagna.
Malgrado l'infedeltà del marito e la sorda ostilità
delle dame della Corte di Spagna, Maria Luisa di Savoia
fu, per dodici anni, non solo una moglie innamorata e fedele,
ma anche un aiuto efficace e sicuro per il marito stesso,
i cui primi anni di regno trascorsero fra molte e gravi
difficoltà. Del suo senno ella ebbe modo di dar prova
fin da principio, quando Filippo V si ammalò a Barcellona,
dove si era recato a presiedere una assemblea. In quella
circostanza, la giovanissima regina rappresentò spesso
il sovrano in importanti affari già imparando ad
assolvere compiti che poi dovette assumersi a diverse riprese
esercitando le funzioni di reggente.
«Maria Luisa, scrive la Saredo, aveva
una particolare attitudine ad occuparsi di cose gravi e
poco confacenti, per solito, al carattere femminile, mentre
una dolcezza tutta femminea dava una seduzione irresistibile
ai suoi modi e alle sue parole. Ella assisteva ai Consigli
di Stato a fianco del Re, e quando era Reggente presiedeva
gli Stati delle varie province (specie di Parlamenti), e
li presiedeva tanto bene, che, la prima volta, a Saragozza,
dopo aver destato un po' di diffidenza per il suo sesso
e perchè giovanissima, entusiasmò gli Aragonesi,
che vollero votare per lei un dono di diecimila scudi ».
E
il Louville scrisse allora nelle sue Memorie segrete: «
È una di quelle principesse che costituiscono un
eterno rimprovero per la legge salica ».
Nel 1703, Filippo V dovette recarsi alla frontiera, perchè
l'arciduca Carlo di Lorena, riconosciuto da una parte dell'aristocrazia
come re di Spagna col nome di Carlo III, e protetto e spalleggiato
da un potente partito, minacciava di occupare il Regno.
Dopo la battaglia di Saragozza, che fu disastrosa per lui,
si vide costretto a lasciare Madrid, minacciata da ogni
parte e nell'impossibilità di difendersi. In quel
drammatico frangente, Maria Luisa, prima di partire, si
mostrò al popolo tenendo in braccio il figlioletto
Luigi, e parlò con tanta grazia persuasiva e con
tanto coraggio da suscitare sincero entusiasmo.
Quando poi Filippo V, dopo un periodo di esilio errabondo
potè ritornare con la propria famiglia a Madrid,
donde Carlo III si era allontanato, la Regina, sofferente
già per la malattia che doveva condurla alla tomba,
non potè seguirlo. Le angosce e i disagi dell'esilio
l'avevano ridotta in condizioni penosissime, che si aggravarono
quando le giunse la notizia della morte della sorella Adelaide,
duchessa di Borgogna e delfina di Francia. Ella aveva da
soli tre mesi data alla luce la sua terza creatura, l'infante
Ferdinando, quando la sua salute comincio a peggiorare rapidamente.
Morì il 14 febbraio 1714, « senza mai essersi
accorta (così scrisse un suo contemporaneo)
che il re l'aveva continuamente tradita con la principessa
Orsini ». Venne sepolta nell'Escuriale.
La benefica influenza ch'ella esercito sul marito e sulle
popolazioni a lui soggette è riconosciuta da tutti
gli storici. Gli Spagnoli la rimpiansero per molto tempo,
ma Filippo V si consolò presto d'averla perduta e
non tardò a contrarre un secondo matrimonio.